La stagione sportiva 1969 – 70 si conclude molto presto perché in estate ci sono i campionati del mondo, che si giocano in Messico, dove le alture hanno una pressione dell’aria differente e quindi occorre partire prima per abituarsi. Sono campionati molto importanti, anzi unici, ma questo non lo si sa ancora: la Coppa Rimet verrà assegnata per sempre, perché tutte e due le finaliste l’hanno già vinta due volte.
Il 12 aprile il Cagliari si laurea matematicamente campione d’Italia, per la prima e l’unica volta. Quella sera la rosa al completo è ospite nello studio della Domenica Sportiva, accompagnata dall’intelligentissimo vice presidente Arrica, vero artefice dell’impresa e capace di sfruttare al meglio gli agganci economici e politici per il mercato della squadra. In mezzo agli ospiti c’è anche Manlio Scopigno, che di quella squadra è l’allenatore, al quale vengono fatti i complimenti e qualche domanda. Scopigno sbadiglia, si lamenta che ha sonno data l’ora tarda e poi afferma che in campo sono scesi i giocatori e non lui, e quindi se il Cagliari ha vinto lo scudetto sarà merito loro e non suo. Affermazione interessante e stupefacente, specie se confrontata con quella dei tecnici con la mentalità vincente che oggi vincono i campionati e li dedicano a sé stessi.
Manlio Scopigno, figura eccentrica, coltissima e unica nel panorama calcistico italiano, malgrado l’infinita e molto divertente aneddotica che accompagna la sua storia, non si può definire un “personaggio”, ma tutto il contrario, perché nel tempo riesce a non diventare prigioniero della propria interessante e divertentissima maschera. Egli è veramente distaccato e non finge, quando rifiuta complimenti e popolarità. Può affermare con disincanto che: “Nel calcio il più pulito è il pallone, quando non piove”. È un antipersonaggio, uno che la fama, la gloria, l’apprezzamento e la gente che ride alle sue battute non se l’è andate a cercare. Fosse stato per lui sarebbe rimasto a dormire o a fumare le sue infinite sigarette.
Scopigno nasce in Friuli per via dei trasferimenti di lavoro del padre, ma cresce a Rieti e resterà per sempre reatino. Si diploma e frequenta l’università, gioca a calcio come suo fratello Loris e diventa un calciatore di buon livello. Raggiunge la Nazionale militare, la serie A e riesce perfino a segnare una rete, ma nel suo momento migliore, a soli 26 anni, si rompe i legamenti crociati. Nel 1951 non c’è rimedio a un infortunio del genere e la sua carriera termina in quel modo (con un tentativo non riuscito di riprendere a giocare due anni dopo).
All’inizio vorrebbe tornare sui libri, ma si rende conto ben presto che è passato troppo tempo e per studiare occorrerebbe la mente fresca di un ragazzo. Inizia, non troppo convinto, a fare l’allenatore. Allena per sei anni nel centro Italia, finché, nel 1959 arriva una chiamata un po’ più prestigiosa, il Vicenza, che all’epoca è una squadra di media classifica in serie A. All’inizio entra solo nello staff, ma dopo due anni si ritrova a dover subentrare a Roberto Lerici, l’allenatore esonerato che lo aveva voluto come vice. Scopigno accetta e Lerici non è affatto contrariato della cosa.
Da allenatore del Vicenza si trova come centravanti il brasiliano Luis Vinicio (che da allenatore, dieci anni dopo, sarà uno degli inventori della zona nel nostro campionato). Vinicio è un attaccante potente e bravissimo, ma è a fine carriera, in sovrappeso e ha le polveri bagnate: non segna più. Scopigno intuisce che il suo centravanti ha ancora qualcosa da dare, che il suo blocco è solo mentale e sa perfettamente come farglielo superare: chiede al marcatore in allenamento di tenerlo largo e al portiere di farsi segnare un paio di volte. Vinicio ricomincia a segnare in allenamento, poi in partita, e non smette più. Il Vicenza arriva settimo, poi sesto, e Vinicio vecchio e fuori forma, viene comprato dalla Grande Inter del mago Herrera, seppure non come titolare. Anche questo episodio andrebbe confrontato con il calcio attuale, nel quale gli staff sono invasi da psicologi, motivatori e pedagogisti pazzi. Un suo giocatore del Cagliari ricorderà: “Ci diceva tre parole all’anno, ma erano quelle giuste”.
Se l’attenzione dei grandi club si riaccende per Vinicio, altrettanto succede a Scopigno, che viene chiamato dal Bologna, che alla Grande Inter aveva appena soffiato lo scudetto allo spareggio, in sostituzione di un monumento del calcio nazionale, il dottor Fulvio Bernardini.
In quel Bologna (che a fine stagione arriverà secondo), Scopigno dura cinque giornate. Non viene cacciato per i risultati (due vittorie, un pareggio e due sconfitte) ma per il cattivo rapporto con il presidente Goldoni, che tra le tante cose non gradisce la visita di cortesia che Scopigno fa a Bernardini. Scopigno però è così: “io dico pane al pane, brocco al brocco”, non deve risultare simpatico a nessuno e si limita a far sapere al presidente Goldoni che nel messaggio scritto di esonero che gli invia ci sono un congiuntivo sbagliato e due errori di sintassi.
Approda al Cagliari e lo porta al sesto posto in classifica. Ormai è una certezza come allenatore e anche la RAI gli dedica un curioso documentario con una diretta dalla panchina. A fine stagione però viene esonerato…un altro incidente. Se la leggenda vuole che durante una tournè negli Stati Uniti Scopigno avrebbe causato un mezzo incidente diplomatico facendo pipì nel giardino del consolato italiano, in realtà l’esonero è dovuto più probabilmente ad una risposta telefonica sgarbata al presidente che lo avrebbe chiamato all’ora di pranzo. Qui c’è un po’ tutto Scopigno, che alla sua vita non rinuncia, nemmeno per la serie A: l’ora di pranzo, quella di cena, le sigarette e gli alcolici. E dormire, se possibile, fino a mezzogiorno, tant’è che nel precampionato, quando è costretto anche alla seduta mattutina, la fa eseguire nel cortile dell’albergo e la dirige dalla finestra in pigiama.
Resta un anno fermo (si dice stipendiato da Angelo Moratti che ha intenzione di cacciare Herrera da un momento all’altro e vuole avere le spalle parate, ma poi niente succede), finché, proprio un amico di Moratti, il senatore Efisio Corrias presidente della regione Sardegna, diventa presidente del Cagliari e lo richiama sulla panchina.
A Cagliari ritrova la sua squadra che lo riaccoglie a braccia aperte: massima fiducia, niente allenamenti al mattino e niente ritiri punitivi (“li fanno le squadre che stanno per retrocedere, e poi retrocedono lo stesso”). Leggendaria è la narrazione di Scopigno che irrompe in camera d’albergo prima della partita e trova i giocatori a giocare a carte, terrorizzati dall’essere stati beccati. Si siede e dice: “do fastidio se fumo?”.
Tutta questa libertà è ben ricambiata, perché i giocatori non solo si impegneranno per vincere lo scudetto, ma rifiuteranno anche le chiamate delle grandi squadre (Juventus in primis) per restare con il loro allenatore.
Dopo il secondo posto del 1969, Scopigno chiede alla società un azzardo non da poco. Vendere Roberto Boninsegna, il centravanti della Nazionale, all’Inter, in cambio del meno prolifico Gori, ma anche dell’ala destra Domenghini. Scopigno comprende che di Boninsegna può fare a meno perché ha in rosa Gigi Riva, ala sinistra d’attacco specializzata nel calciare al volo, “Rombo di tuono”, come lo definirà Gianni Brera. Si può quindi schierare un “falso nueve” che porti via alla difesa avversaria lo stopper, ma occorre un’ala destra più forte di tutte, perché a Riva devono arrivare dei cross perfetti. La mossa è vincente, d’altronde anche Valcareggi in Nazionale fa la stessa cosa (in Messico si porterà un blocco di giocatori del Cagliari, cinque dei quali sono titolari).
Lo scudetto del 1970 non sono solo i cross di Domenghini e le 21 reti di Riva, ma un assetto in campo molto accurato. Il portiere Albertosi prende solo 11 reti. La difesa è schierata all’italiana, ma i terzini Martiradonna e Zignoli si sganciano e si sovrappongono (come quelli dell’Inghilterra campione del mondo quattro anni prima). Scopigno piace ai breriani perché gioca a uomo con libero e stopper, ma anche ai modernisti, perché fa attaccare i terzini. Al centro del gioco c’è il brasiliano Nenè, ex attaccante, che Scopigno fa giocare come regista. Anche su di lui gli aneddoti si sprecano: pare che quando si infortuna mandi le foto delle ginocchia o delle caviglie alla madre in Brasile e che questa gli prepari e gli faccia arrivare dei filtri. Nenè però viene dal Santos di Pelè e non sbaglia un passaggio e, dai racconti, è una colonna emotivamente con i compagni di spogliatoio.
La cavalcata del 1969-70 è funestata da due incidenti che paradossalmente rafforzano l’impresa. Il libero Tomassini si infortuna e Scopigno reinventa la formazione, facendo giocare dietro lo stopper Niccolai, il mediano di rottura Cera. Una mossa così azzeccata che Cera diventerà il libero anche della Nazionale.
Sarà proprio Cera, in una partita determinante, a fare a Scopigno la famosa domanda: “Mister, quanto manca?”. Risposta: “A che cosa?”
Il secondo incidente è una rete annullata per fuorigioco a Riva contro il Palermo: Scopigno si infuria e prende a parolacce il guardalinee Cicconetti (in un’epoca nella quale le parolacce non sono ancora entrate nel linguaggio comune). Quattro mesi di squalifica accettati di buon grado: “beh, si approssima l’inverno, in tribuna prenderò meno freddo, e poi da lì la gara si vede meglio”. A campionato vinto rincara la dose: “il Cagliari ha vinto lo scudetto, malgrado la squalifica di Scopigno”.
Un ultimo aspetto non di poco conto, per comprendere quanto Scopigno sia avanti. Nell’anno dello scudetto impone l’adozione della seconda divisa, quella bianca, con solo i bordi rossoblù. Pare che avesse portato bene in una partita, ma la vera ragione è una psicocinetica dei colori ante litteram: le maglie bianche si vedono meglio e i giocatori si troveranno prima. E così è.
La stagione dopo lo scudetto e dopo il mondiale è funestata dall’infortunio proprio di Rombo di tuono e il rendimento del Cagliari cala considerevolmente. Anche in Nazionale i suoi giocatori vengono schierati un po’ meno, generando le ire del popolo sardo contro Valcareggi, in una partita giocata proprio a Cagliari. Scopigno non si scompone e ai giornalisti risponde sornione: “Io in tanti anni qui di fischi non ne ho mai sentiti, infatti pensavo che i sardi non sapessero fischiare, l’ho scoperto l’altra sera”. I giornalisti incalzano e gli chiedono se lui aspiri alla Nazionale, ma è solo l’assist per sentirsi rispondere: “io al massimo aspiro la Nazionale”.
La parabola, comunque, è in discesa, per quanto nel 1972, con il ritorno di Riva e i suoi 21 gol, la squadra competa per il titolo almeno fino a marzo. Al termine della stagione Scopigno lascia e accetta di sostituire Herrera nella difficilissima Roma del nuovo presidente Anzalone. A Roma dura sei giornate e poi lascia inorridito dalle pressioni della piazza, non prima però di aver fatto segnare la prima rete al futuro capitano della Roma che sarà grande esattamente dieci anni dopo. E proprio quel giovane capitano lo vorrà con sé (in prestito) nella sua ultima avventura, il Vicenza, da dove tutto è partito. E quando smette, festeggia, ci beve sopra, e non avrà ripensamenti come invece molti suoi colleghi.
Sparisce, torna a Rieti e fa la sua vita. Alcol e sigarette, qualche effetto collaterale ce l’hanno ed inizia ad essere malconcio di salute. Scrive per dieci anni dei corsivi calcistici sul quotidiano Il Giorno, firmandosi, neanche a dirlo, “senza filtro”. Lo interrogano qualche mese prima della morte, nel 1993, chiedendogli del Cagliari che Mazzone ha portato in coppa Uefa, ma lui risponde “sono molto contento, ma non l’ho mai visto giocare, è troppo lontano, come faccio”.
Gli aneddoti e le battute sono tantissime, ma tutti ampiamente reperibili, una però resta di incerta attribuzione, perché alcuni la attribuiscono a Liedholm. E’ quella nella quale si dice che il calcio sarebbe il gioco più bello del mondo…se non ci fossero le partite.