Coaching mentale ed emotivo

Leadership emotiva: come il coaching e le emozioni intervengono nell’apprendimento sportivo

21 Febbraio 2025

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLE ATTIVITÀ MOTORIE E SPORTIVE. LA TESI DI MANUEL CALIARI

I limiti sono solo nella nostra testa. Se hai un sogno e vuoi realizzarlo, non ci sarò nulla in grado di ostacolarti. Tranne la tua volontà.

Alex Zanardi

INTRODUZIONE

In un mondo e in una società che ci stanno cambiando alla velocità della luce, stare al passo con le esigenze richieste penso sia essenziale per chi vuole fare dell’insegnamento e della didattica il proprio lavoro.

In questo elaborato di tesi ho cercato di soffermarmi su un paio di aspetti che negli anni si sono ritagliati un posto preponderante nell’apprendimento sportivo e non solo: EMOZIONI e COACHING.

A dire il vero, entrambe le cose sono sempre esistite dalla notte dei tempi, ma non si è mai data a loro l’importanza che meritano. Eppure ogni giorno, in ogni minuto, in ogni momento, in ogni decisione che prendiamo, siamo influenzati dall’emotività, seppur la trattiamo come se fosse una parte di noi che è lì, che ogni tanto esce fuori e alla quale prestiamo poca attenzione. Se è vero che spesso ci fanno dire: “eh, ma sono fatto così” è altrettanto vero che conoscendole, queste emozioni, le possiamo veicolare verso un miglioramento prima di noi stessi e poi degli altri; come vedremo, saranno fondamentali per quanto riguarda l’apprendimento sportivo sia individuale che di squadra.

Fondamentale è anche un altro aspetto legato all’acquisizione di abilità al quale sono legati molti studi che ne risaltano l’importanza, ovvero il coaching. Se ci pensiamo, ognuno di noi, almeno una volta nella propria vita ha insegnato qualcosa a qualcuno o guidato verso una scelta. Ecco che, anche se solo in maniera sporadica, possiamo dire di essere stati dei “coach”. Ma se proviamo a prendere seriamente questa parola, scopriremo che dietro ci sta un mondo che racchiude quello che comunemente noi chiamiamo COMUNICAZIONE. Se ci pensiamo comunichiamo in ogni momento della nostra vita per insegnare, dirigere, sostenere, indirizzare, incoraggiare, elogiare, riprendere, sgridare, far valere un’opinione o semplicemente per uno scambio di idee. In questa tesi vedremo quanto sia importante comunicare in maniera positiva – non solo attraverso il linguaggio verbale – nel momento in cui un ragazzo o un atleta sta interiorizzando una nuova abilità o implementandone una già acquisita. Infine, cercheremo di capire perché un atleta o una squadra emotivamente felici siano più invogliati ad apprendere e come le emozioni positive influiscano sul processo cognitivo e motorio.

Detto ciò, non mi resta che augurarvi buon viaggio.

Capitolo 1. L’APPRENDIMENTO NELL’ALLENAMENTO

1.1 Definizione di apprendimento sportivo

Qualsiasi organismo animale apprende in modi e livelli diversi. Ovviamente la complessità dell’apprendimento va di pari passo con l’evoluzione di suddetti organismi: dal momento della nascita e per tutta la vita ogni organismo animale è soggetto ad apprendimento. Prima di inoltrarci nei meandri della mente umana e di come essa influenzi, attraverso processi cognitivi ed emozionali, il processo di apprendimento, cerchiamo prima di analizzare il significato della parola APPRENDIMENTO.

Secondo la Treccani l’apprendimento è: “Atto dell’apprendere, dell’acquistar cognizione… processo di acquisizione di nuovi modelli di comportamento o modificazione di quelli precedenti, per un miglior adattamento dell’individuo all’ambiente…”. In sostanza: acquisire nuove conoscenze del mondo e metterle a confronto con ciò che già sappiamo per riuscire ad adattarsi a tutte le situazioni che incontriamo nella nostra vita. Tutto questo processo porta il nome di NEUROPLASTICITA’; ovvero quel processo cognitivo che permette il consolidamento di circuiti neuronali già esistenti nel cervello, o la formazione di nuovi circuiti (sinapsi). Se proviamo ad entrare nello specifico di quello che stiamo trattando, associando l’apprendimento all’aspetto motorio, troviamo che: “l’apprendimento motorio è un insieme di processi associati all’esercizio e all’esperienza che portano a miglioramenti relativamente permanenti nel potenziale di performance abili di un soggetto” (Schmidt, Lee, 2023, pag.187).

Se vogliamo puntare sul far apprendere un qualsiasi gesto motorio, una qualsiasi intenzione motoria che permetta di migliorare la performance, dobbiamo considerare tale apprendimento come l’insieme di una serie di componenti che interagiscono tra di loro. Tali componenti sono organizzati in quattro punti principali (Wolpert, Flanagan, 2010):

✅ RACCOLTA EFFICACE DELLE INFORMAZIONI SENSORIALI
✅ APPRENDERE LE CARATTERISTICHE CHIAVE DEL COMPITO
✅ IMPOSTARE MECCANISMI DI CONTROLLO PREDITTIVO E REATTIVO CHE GENERINO COMANDI MOTORI APPRORIATI
✅ SAPER ANTICIPARE E CONTRASTARE LA STRATEGIA DELL’AVVERSARIO

Dello stesso parere sono i medici coreani (Nam-jong Paik, Joon Ho Shin, 2010) che definiscono l’apprendimento come: “un cambiamento relativamente permanente nella capacità di eseguire prestazioni motorie qualificate come risultato della pratica o dell’esperienza”; inoltre gli stessi medici aggiungono che: “soltanto un piccolo numero di cambiamenti nelle prestazioni si verifica a causa di cambiamenti nelle capacità interne”. Questo argomento lo tratteremo in seguito e sarà la base di partenza per distinguere la differenza tra apprendimento e performance. Possiamo quindi dire con abbastanza certezza che il processo di apprendimento si compone di processi biologici e psicologici estremamente complessi in cui è coinvolto l’essere umano nel sul complesso e non solo tramite il cervello (Stadelman, 2012).

In aggiunta a tutto ciò non possiamo dimenticare l’influenza che ha l’ambiente esterno nel processo di apprendimento. A sostegno di quanto detto, gli scienziati (De Hower, Barnes-Holmes, Mori, 2013) parlando di apprendimento, lo definiscono come adattamento ontogenetico composto da tre principi: «(1) cambiamenti nel comportamento dell’organismo, (2) una regolarità nell’ambiente dell’organismo e (3) una relazione causale tra regolarità dell’ambiente e i cambiamenti nel comportamento dell’organismo».  I cambiamenti che avvengono tramite l’apprendimento portano ad un miglioramento della capacità di elaborazione delle informazioni che diventano più veloci, sono più efficaci ed economizzano il movimento; ovvero avviene un risparmio energetico a tutti i livelli.

1.2 Teorie dell’apprendimento e non
1.2.1 Teorie di Adams e Schmidt

Le Neuroscienze, ad oggi, ci dicono che il nostro cervello, quando processa informazioni lo fa attraverso tre tipi di memorie (sensoriale, di lavoro e a lungo termine). L’informazione arriva alla nostra memoria sensoriale attraverso i cinque sensi e trasmette gli stimoli alla memoria di lavoro, operando una selezione di suddetti stimoli; cioè traferendo al nostro cervello solo quegli stimoli che sono considerati utili per quel determinato momento e azione. Uno dei primi scienziati a parlare di apprendimento motorio fu Adams (1971) che definì una teoria chiamata del closed-loop nella quale l’apprendimento era visto come il prodotto derivante dai feedback di risposta che permette di rilevare (Traccia Mnestica) e correggere l’errore (Traccia Percettiva). Tali memorie vengono successivamente riviste e ridenominate (di Riconoscimento e Rievocazione) da Schimdt (1975), le quali si basano sul concetto di “schema”; ovvero che l’apprendimento avviene tramite pratica variabile e costante che permette di mettere in relazione le conseguenze del movimento che viene effettuato. A supporto di tale teoria (Wrisberg, Ragsdale 1979) affermano che la pratica variabile ha molta più incidenza nell’apprendimento motorio rispetto alla pratica costante.

1.2.2 Teoria dei neuroni specchio

Oltre a questi aspetti, decisamente importanti, si scopre successivamente che l’apprendimento è influenzato anche dall’osservazione del comportamento di altri soggetti, con la ricompensa che ha il grado di influencer più potente in assoluto (Firmansyah & Saepuloh, 2022). Tale aspetto prende forma dalla scoperta dei così detti neuroni specchio: “il sistema dei neuroni specchio svolge un ruolo fondamentale sia nella comprensione dell’azione che nell’apprendimento per imitazione, con proprietà specifiche negli esseri umani che potrebbero spiegare la nostra capacità di apprendere per imitazione e la sua relazione con il linguaggio” (Rizzolatti, Craighero, 2004, Rizzolatti et al.,1996). A tutto questo aggiungiamo anche il fatto che i neuroni specchio utilizzano rappresentazioni sia visive che motorie per comprendere le azioni osservate (Calvo-Merino et al., 2006).

1.2.3 Teoria della zona di sviluppo prossimale

Che il contesto sociale faccia la differenza per quanto riguarda l’apprendimento motorio, lo aveva già anticipato e descritto Lev Vygotskij con la sua opera “Pensiero e Linguaggio” (1934).  Lo psicologo russo basa la sua teoria sulla cosiddetta ZDP (Zona di Sviluppo Prossimale), definita come: la distanza tra l’effettivo livello di sviluppo determinato dalla risoluzione dei problemi e il livello di sviluppo potenziale determinato attraverso la risoluzione dei problemi sotto la guida di un adulto o in collaborazione con coetanei più capaci (Roth e Radford, 2011). Fondamentalmente si tratta di assegnare compiti che l’individuo non è in grado di risolvere in maniera autonoma ma con l’aiuto di un assistente (insegnante, coach); e che questa assistenza si possa chiamare tale nel momento in cui il soggetto riesce a svolgere il compito in maniera indipendente (Wass et al., 2014). In suddetta teoria l’insegnante ricopre il ruolo di scaffolding, fornendo supporto temporaneo che viene ritirato a mano a mano che il soggetto acquisisce competenze (Sarker, 2019). Tali teorie cercano di scardinare il dualismo mente – corpo di Cartesio, nella quale la mente viene identificata con la coscienza; “la mente non è altro che una cosa che pensa, non con il suo corpo” (Ornstein, 1972). Nonostante ciò si inizia a capire che mente e corpo interagiscono tra di loro, perché le sensazioni, gli appetiti, le emozioni sono viste come fenomeni che appartengono sia alla mente che al corpo (Ornestein, 1972). L’elaborazione delle informazioni avviene principalmente in due modi (Schneider et al., 1977):

✅ ELABORAZIONE AUTOMATICA: si attiva una sequenza di movimenti in memoria a lungo termine in riferimento a stimoli specifici (apprendimento inconscio). Questa sequenza lavora senza sforzo e con dispendio energetico molto basso della memoria a breve termine;

✅ ELABORAZIONE CONTROLLATA: si attiva una sequenza di elementi che richiede attenzione e può essere facilmente modificata. È un processo seriale limitato alla memoria a breve termine (apprendimento conscio).

Le prestazioni sono influenzate da tre variabili principali: carico di memoria, natura del binomio stimolo-risposta e dalla quantità della pratica (Schneider et al., 1977). Studi abbastanza recenti supportano tale teoria aggiungendo che “Gli esseri umani possiedono due sistemi di memoria, uno che apprende lentamente le regolarità generali e l’altro che forma rapidamente rappresentazioni di eventi uniche o nuove, con un’elaborazione senza sforzo basata su associazioni precedenti ben apprese e un’elaborazione faticosa che coinvolge inferenze basate su regole” (Smith et al.,2000). Le recenti scoperte neuro cognitive, ci suggeriscono come il processo cognitivo di elaborazione delle informazioni non si possa più considerare separato dalla presenza delle emozioni; questi due meccanismi sono intrecciati tra di loro dalla precoce percezione al ragionamento (Phelps, 2006).

1.2.4 Teoria dei sistemi dinamici

Negli ultimi anni una nuova teoria dell’apprendimento ha cercato di contrapporsi a quella cognitiva: la Teoria dei Sistemi Dinamici non Lineari. Per la Treccani questa teoria deriva da: “da un settore della matematica pura e applicata che si è sviluppata a partire dagli anni 60’. Essa si occupa delle analisi delle soluzioni di equazioni che descrivono l’evoluzione di sistemi fisici, chimici, biologici, ecc.”. Tale teoria studia i processi globali che organizzano tutti i sistemi, viventi e non. Tali processi tendono a modificare i pattern di questi sistemi supponendo che effetti e cause si trasformano continuamente gli uni nelle altre. Tali sistemi, quindi, si riorganizzano uno nell’altro e reagiscono ai nuovi eventi con modalità non lineari. Il contesto influisce in maniera preponderante sui risultati determinando il fatto che il tutto è più grande della somma delle sue parti, perché le relazioni tra le componenti di ciascun sistema modifica le componenti stesse. Per quanto riguarda l’apprendimento motorio, ricerche che riguardano la coordinazione percettivo – motoria ci spiegano che suddetta coordinazione è spiegata in termini di auto-organizzazione dei sistemi percettivi e motori (Favela, 2020). L’organismo vivente e non, inserito all’interno di un contesto, viene studiato come un’unità inseparabile dove comportamento e sviluppo dell’organismo non possono essere isolati dall’influenza dell’ambiente esterno (Spencer et al., 2011). Il sistema nervoso centrale (SNC) apprende a controllare i movimenti in condizioni dinamiche variabili e come il comportamento appreso prevede la costruzione di un modello interno di forze che si adattano al contesto e quindi variano al variare dell’ambiente esterno (Shadmher et al.,1994). Questo tipo di adattamento del movimento alle forze perturbatrici esterne avviene tramite una rappresentazione interna (modello interno) di queste forze. Questi modelli sono di tipo forward (prevede gli esiti dell’azione) e di tipo inverso (genera azioni per raggiungere l’obiettivo desiderato). L’apprendimento motorio risulta quindi essere un processo dinamico basato su errori e input esterni (Pierella et al.,2019).

1.2.5 Teoria dell’apprendimento ecologico

Sulla scia dei sistemi dinamici, viene proposto un modello così detto “ecologico”, dove viene esaltato maggiormente l’adattamento progressivo, per tutto l’arco della vita, tra l’organismo umano e gli ambienti mutevoli in cui vive e cresce (Bronfenbrenner, 1977). Lo psicologo statunitense introduce un modello ecologico che prevede 4 livelli:

✔️ Microsistema: relazioni immediate tra individuo e ambiente (es: casa, scuola)
✔️ Mesosistema: interrelazioni tra microsistemi (es: famiglia e scuola)
✔️ Esosistema: strutture sociali che influenzano il microsistema (es: lavoro dei genitori)
✔️ Macrosistema: modelli culturali e ideologici che influenzano tutti gli altri sistemi

L’adattamento è visto, quindi, come un processo dinamico nel quale l’individuo/popolazione interagisce con l’ambiente. Il processo di crescita (sviluppo interno) ed evoluzione (cambiamenti indotti dall’ambiente esterno) sono complementari tra di loro e necessari al cambiamento sistemico (Hawley et al, 1986). Inoltre, diventa fondamentale la variabile “tempo”, entro la quale la persona e l’ambiente hanno cooperato congiuntamente per raggiungere il risultato di sviluppo (Rosa et al., 2013). Un altro aspetto necessario all’adattamento lo possiamo ritrovare nella flessibilità dei comportamenti di ogni soggetto. Tale flessibilità permette di adattare l’azione comportamentale in base alle situazioni che si vengono a creare (“affordance”), inoltre l’apprendimento e lo sviluppo sono processi interconnessi; cioè gli individui imparano a percepire e sfruttare le affordance mentre il loro corpo e abilità cambiano (Adolph, 2019). Si giunge quindi ad adattare la teoria cognitiva a quella ecologica, introducendo il concetto di Ecologia Cognitiva. Tale concetto sottolinea che la cognizione umana è adattativa rispetto ai vincoli del contesto in cui si svolge il compito (Hutchins, 2000). Ne riconosce l’importanza dei processi mentali interni nel saper produrre delle risposte specifiche agli stimoli esterni (Real, 1993). Per comprendere tale cognizione dobbiamo esaminare tutte le strutture materiali e sociali con le quali interagisce la mente, non limitandoci solo all’individuo (Hutchins, 2000). Per comprendere l’azione, invece, è necessario comprendere sia i sistemi motori che le sue interazioni con il mondo. Si crea così un processo sinergico tra psicologia ecologica e sistemi dinamici della cognizione (Hutchins, 2010).

1.2.6 Teoria delle emozioni

Qual è quel processo finale che può influenzare il binomio individuo – ambiente esterno durante l’apprendimento? Studi scientifici ci dicono che le emozioni svolgono un ruolo cruciale nel processo di apprendimento. Riconoscere la diversità emotiva negli ambienti educativi, migliorare la qualità dell’insegnamento, fornire supporto emotivo e promuovere un ambiente di apprendimento positivo, possano aiutare a migliorare sia le emozioni che il rendimento dell’individuo (Pekrun et al.,2002). Quindi migliorare le opportunità di apprendimento e l’ambiente educativo, significa migliorare un aspetto molto importante della sfera umana in relazione all’apprendimento: l’interesse. Esso è definito come una relazione specifica tra individuo ed oggetto dell’interesse, ed ha un impatto significativo sul processo di apprendimento, influenzando sia la motivazione intrinseca che le strategie di apprendimento (Krapp, 1999). Inoltre la molteplicità dei fenomeni emotivi, include due termini che sembrano sinonimi ma in realtà non lo sono: sentimenti ed emozioni. I sentimenti (stati emotivi, sensazioni di…) non tendono all’azione ma monitorano lo stato di soddisfazione dell’organismo (tramite riflessione) e sono collegati all’elaborazione cognitiva (sentimenti metacognitivi); le emozioni (rabbia, noia, ecc.) tendono a “far muovere” il nostro organismo e quindi controllano l’azione all’impegno o alla sospensione relativa all’apprendimento (Efklides, 2005). Non a caso “la radice della parola emozione è il verbo latino MOVEO, «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e-» («movimento da»), per indicare una tendenza ad agire” (Goleman, 1995, pag. 24). 

Il sistema emotivo primario più fondamentale, cruciale per apprendimento e memoria, tra i 7 sistemi identificati da Panksepp (1998), è quello del SEEKING (RICERCA). Tale sistema emotivo quando è attivato diventa un motore di azione per il soggetto, il quale si sente motivato ad apprendere tutte quelle informazioni di cui ha bisogno, alle quali ambisce e desidera. (C.M. Tyng et al., 2017). La curiosità diventa quindi fattore fondamentale per raggiungere uno scopo individuale, la quale attiva in maniera anticipatoria i sistemi dopaminergici che elaborano le ricompense primarie (Oudeyer et al., 2016). Il sistema SEEKING è colui che guida questa curiosità, ed è stato progettato per farci apprendere in maniera automatica ed è quindi direttamente collegato alla memoria a lungo termine (Oudeyer et al., 2016).

Considerato il fatto che le emozioni scrivono nella nostra memoria (lasciano un segno), diventa importante alimentare questo meccanismo di ricerca tramite l’utilizzo di emozioni positive; esse producono una reazione intensa al nostro organismo tale da provare una soddisfazione immensa da farci ricercare in continuazione le cose che ci fanno sentire bene (Lucangeli, 2019). Durante la fase di apprendimento diventano fondamentali i così detti interruttori emozionali come l’abbraccio, la carezza, il tocco, lo sguardo, il sorriso e la voce, accompagnati dalla figura dell’insegnante/coach (deve essere un alleato) come portatore sano di allegria e sorrisi. Infatti è stato appurata la potenza del sorriso sul nostro organismo (Lucangeli 2019, pag. 22 – 28). Anche a livello motorio ne esaltiamo l’importanza di tali emozioni perché motivano i soggetti a perseguire i propri obiettivi desiderati e ad evitare eventi avversi, inoltre influenzano alcune caratteristiche del movimento come velocità, accuratezza, variabilità delle azioni motorie.

Per predisposizione biologica i soggetti rispondono più velocemente durante stati emotivi sgradevoli (sopravvivenza); tali tempi di risposta sono più rapidi quando si diminuisce la distanza da stimoli esterni piacevoli e si aumenta quella da stimoli sgradevoli (Beatty et al., 2016). Nonostante (James, 1884, 1890) parlasse già di emozioni e come queste sono associate a cambiamenti corporei e del comportamento e di come questi ultimi due fattori siano causa e non semplici conseguenze: “Incontriamo un orso, ci spaventiamo e corriamo; siamo insultati da un rivale, siamo arrabbiati e scioperiamo… Questo ordine di sequenza non è corretto . . . L’affermazione più razionale è che ci sentiamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché colpiamo, spaventati perché tremiamo.”(1890, pag. 449), ci sono stati pochi studi neuroscientifici che hanno studiato e collegato le emozioni con l’azione volontaria, cioè gli effetti dell’emozione sui movimenti che sono diretti verso uno scopo. Tuttavia l’ultimo decennio ha fornito prove e aperto nuove strade. Ne sono l’esempio gli studi (Blakemore et al., 2017) che ipotizzano un processo di emozione – elaborazione basato sulle elaborazioni delle informazioni per il controllo motorio (Smith & Lee, 2014):

Fig. 1.1 An information – processing approach to emotion – modulated motor control (adapted from Smith & Lee, 2014).

La risposta motoria allo stimolo rilevato avviene in base alla rilevanza emotiva che viene associata a suddetto stimolo (es: uno stimolo minaccioso induce ad un comportamento di attacco o fuga). Inoltre il controllo motorio umano ha la sorprendente capacità di eseguire azioni complicate anche in maniera automatizzata senza elaborazione cosciente. Anche tali comportamenti sono influenzati dalle emozioni così dette riflesse, in particolare stimoli affettivamente evocativi, che hanno il compito di provocare reazioni comportamentali e fisiologiche in maniera automatica (Blakemore et al., 2017). Questo tipo di processo lo possiamo anche definire come concettualizzazione situata, nel quale il cervello assembla elementi della situazione che il soggetto sta vivendo (ambiente, oggetti, agenti, auto rilevanza, stati mentali, eventi), dando un’interpretazione coerente di ciò che sta accadendo; si dà quindi un significato ed un valore all’esperienza che stiamo vivendo anche in base all’emozione che stiamo provando, immagazzinando il tutto nella memoria a lungo termine. Tale concettualizzazione verrà in superficie tutte le volte che si presenterà davanti all’individuo una esperienza simile (Lebois et al., 2020).

1.3 Procedure metodologiche di allenamento

1.3.1 Goal Setting

La definizione di obiettivi specifici e impegnativi può migliorare le prestazioni degli individui, soprattutto quelli meno motivati. Fornire obiettivi chiari porta ad un aumento della motivazione e della soddisfazione del compito (Bryan et al., 1967). Inoltre, definire un obiettivo, è considerato un meccanismo di auto motivazione che si regge su alcune caratteristiche (Locke et al., 1981):

✔️ SPECIFICITÁ E DIFFICOLTÁ: obiettivi chiari e sfidanti sono più efficaci
✔️ ACCETTAZIONE DEGLI OBIETTIVI: l’individuo deve accettare gli obiettivi assegnati per massimizzare le prestazioni
✔️ FEEDBACK: combinato con obiettivi specifici risulta essenziale ai fini della prestazione
✔️ RICOMPENSE: soprattutto quelle monetarie con importo significativo
✔️ DIFFERENZE INDIVIDUALI: il grado di autoefficacia e realizzazione di ogni individuo influenzano la reazione agli obiettivi

In tutto ciò l’obiettivo diventa quindi un fattore molto influente nel quadro prestativo andando a modificare l’attenzione e l’azione verso compiti specifici, lo sforzo, la persistenza e lo sviluppo di strategie per raggiungere tale obiettivo (Locke et al., 1981). Se questo obiettivo esterno viene mediato da obiettivi personali, aumentano impegno e auto-efficacia del soggetto; cioè se il soggetto diventa parte attiva del processo di definizione degli obiettivi, le prestazioni sono più alte (Locke & Latham, 2002). In sintesi, la teoria della definizione degli obiettivi associata alle alte prestazioni può essere così riassunta:

Fig. 1.2 Essential elements of Goal-Setting Theory and High-Performance Cycle (Locke, Latham, 2002).

Ad oggi, parlare di obiettivi in ambito sportivo e non, sembra quasi superfluo. La realtà è che pochi sanno realmente come utilizzarli. Già nel capitolo precedente abbiamo analizzato le caratteristiche del goal setting e come la sua attuazione porti circa il 90% dei casi studiati a migliorare la prestazione e raggiungere gli obiettivi prefissati (Rossi & Sabbatini, 2021). Non basta desiderare qualcosa o semplicemente enunciarlo per ottenerlo. Lo studio principe, diventato punto di riferimento nella programmazione degli obiettivi manageriali e non è quello di (Doran, 1981). Tale programmazione è racchiusa sotto l’acronimo SMART (Specific, Measurable, Achievable, Relevant, Time – bound):

Specifico (concreto e definito): il voler “fare al meglio” non costituisce un’efficace enunciazione dell’obiettivo. Innanzi tutto obiettivi specifici sono correlati a livelli più alti di prestazione (Klein et al., 1990). Inoltre la specificità di un obiettivo è associata ad un aumento della motivazione da parte del soggetto (Wallace & Etkin, 2018); di conseguenza aumenterà anche l’impegno verso di esso, sia che l’obiettivo sia stato assegnato sia che sia auto-assegnato (Wright & Kacmar, 1994).  Un concetto chiave che possiamo utilizzare affinché l’obiettivo non sia vago e generico è rappresentato dalle VIP (Variabili di Incidenza Prestazionali). Esse rappresentano i singoli elementi costitutivi della prestazione sportiva globale (Rossi & Sabbatini, 2021) (Fig. 3)

Fig. 1.3 Variabili di Incidenza Prestazionale (es: pallavolo)

Questo tipo di approccio mira a focalizzare l’attenzione dell’atleta. Inoltre, attraverso domande mirate cerca di creare una spinta motivazionale interna all’atleta a raggiungere il suo obiettivo.

Misurabile (misurato e monitorato): un obiettivo per essere efficace, deve essere misurato. La misurabilità, in termini di prestazione sportiva, può essere in alcuni casi intrinseca (es: tempo di corsa sui 100 metri), in altri può essere di difficile misurazione (es: miglioramento dello stato di forma psico-fisico) (Rossi & Sabbatini, 2021). La misurabilità è un fattore importante nel benessere delle persone. Una ricerca di (Klug & Maier, 2015) ha evidenziato come incentivare i soggetti a stabilire e monitorare obiettivi significativi (soprattutto quelli auto-generati), possa migliorare la salute di tali soggetti. Ci possiamo aiutare utilizzando scale di raggiungimento degli obiettivi che, tramite ricerche scientifiche, sono validi strumenti di misurazione. In principio fu la scala Likert, che prese il nome dal suo inventore (Rensis Likert, 1932), che misura gli atteggiamenti attraverso una scala ordinale (Rinkler, 2014):

Fig. 1.4 Example Likert Item         

Un’altra ricerca afferma che la Likert a 7 punti risulti essere affidabile in termini di riduzione dell’ambiguità delle risposte, permettendo una rappresentazione più accurata dell’opinione dei soggetti (Joshi et al.,2015). Un’altra scala di raggiungimento sulla quale ci possiamo basare, anche se usata per lo più in fase riabilitativa, è la così detta Goal Attainment Scaling (GAS). Essa si basa su obiettivi individualizzati e permette un’analisi più dettagliata attraverso l’utilizzo di una formula matematica (Turner-Stokes, 2009). Considerato comunque il fatto che lo sport è spesso imprevedibile, dobbiamo difendere la nostra mente da questa incertezza attraverso due meccanismi (McCarthy & Gupta, 2022):

✔️ AUTOCOMPASSIONE: non giudicare troppo noi stessi quando le cose sono difficili e impegnarsi in un’accettazione interiore; la ricerca evidenzia che le persone si assumono più responsabilità quando hanno autocompassione dopo un evento negativo (Neff, 2003);

✔️ PERFEZIONISMO: ci permette standard eccellenti se l’obiettivo rimane realistico altrimenti l’atleta si deve porre la seguente domanda:” La mia ricerca della perfezione è andata troppo nella direzione sbagliata”? Bilanciare perfezionismo e autocompassione risulta essere la strategia più salutare;

Attuabile (Realistico e raggiungibile): l’obiettivo deve essere calibrato rispetto al potenziale dell’atleta; deve essere allo stesso tempo raggiungibile e motivante (Rossi & Sabbatini, 2021). Diventa fondamentale per l’atleta sentire la possibilità di avvicinarsi all’obiettivo, la certezza di potersi avvicinare a tale obiettivo (dipende dalla conoscenza del soggetto rispetto gli eventi futuri), e il costo associato al raggiungimento dell’obiettivo (gli svantaggi associati al suo raggiungimento) (Edvardsson & Hansson, 2005). Queste tre variabili vanno ad influenzare l’autoefficacia dell’atleta, in quanto più l’obiettivo è importante, più l’autoefficacia aumenta, più è alta la percezione del raggiungimento e più l’obiettivo stesso progredirà (Beattie et al.,2015, Elliott & Dweck, 1988). Anche la raggiungibilità dell’obiettivo influisce in maniera preponderante sulla salute dell’atleta e quindi risultano cruciali le dinamiche tra importanza e raggiungibilità per la gestione delle aspirazioni personali (Bühler et al., 2019). Affinché tutto ciò possa succedere l’obiettivo deve essere chiaro e preciso (Edvardsson & Hansson, 2005, Bovend’Eerdt et al., 2009). Inoltre dovrebbe rispondere alla domanda:” Quali attitudini, abilità, competenze, risorse ho o posso ottenere per raggiungere questo obiettivo?” (Watts & Watts, 2018). Da questa domanda si evince l’evidenza che l’atleta dovrebbe concentrare tutto il suo essere sugli obiettivi di padronanza (Map), cioè quegli obiettivi che migliorano le competenze e che sono associati a esiti motivazionali positivi (Bardach et al., 2020). In definitiva, è importante trovare l’equilibrio giusto tra il potenziale dell’atleta e il livello di sfida dato dall’obiettivo (Rossi & Sabbatini, 2021);

Rilevante (importante e stimolante): anche la rilevanza di un obiettivo riveste un ruolo cruciale. Essa definisce la spinta motivazionale di ogni atleta (Rossi & Sabbatini, 2021). L’obiettivo funge da punto di riferimento, in quanto la sua importanza, oltre ad influire sulla prestazione come già detto in precedenza, influenza lo stato emotivo dell’atleta (il soggetto può sentirsi insoddisfatto se non raggiunge l’obiettivo anche se la sua performance è migliorata). Inoltre, tale rilevanza è condizionata dall’avversione alla perdita, in cui la perdita è percepita come più dolorosa rispetto ai guadagni equivalenti (Heath et al., 1999). Da uno studio scientifico di (McCrudden & Schraw, 2007) emerge il fatto che la rilevanza (cioè quanto un processo sia pertinente ad un obiettivo specifico) possa migliorare l’apprendimento attraverso istruzioni specifiche, focalizzando l’attenzione su elementi specifici dell’obiettivo alloccando tutte le risorse cognitive su di essi. Di conseguenza l’atleta, concentrandosi sull’acquisizione di nuove competenze e conoscenze, aumenterà la propria motivazione intrinseca (Grant & Dweck, 2003, Daumiller & Zarrinabadi, 2021).

Temporale (tempi e sequenza): affinché l’obiettivo sia efficace è importante che quest’ultimo abbia un momento di inizio e un momento di fine processo, oltre ai momenti intermedi di monitoraggio (Rossi & Sabbatini, 2021). La presenza di un inizio e fine chiari permette all’atleta di adattare i proprio obiettivi alle capacità personali e di affrontare i compiti specifici per lo sviluppo delle abilità (Bühler et al., 2019). Inoltre influisce anche sul processo di motivazione in quanto gli obiettivi a breve termine o intermedi, tendono ad esercitare un’influenza motivazionale più forte rispetto a quelli distali, in quanto permettono all’atleta di monitorare i progressi e mantenere la motivazione (Karniol & Ross, 1996). Questo perché oltre ad essere influenzati dall’utilità prevista, sono soggetti alla pressione temporale (Ballard et al., 2018). Riportiamo un ultimo studio che potrebbe veicolare il nostro atleta al raggiungimento dell’obiettivo; tale studio (Nagamine et al., 2023) offre due strategie per temporizzare l’obiettivo. La prima, definita “Clock Time” ( tempo orario, l’individuo è stimolato dal tempo o da una data a impegnarsi nel compito previsto; es:« impegnarsi nel compito A dalle 9 alle 12, fare una pausa fino alle 13 e dalle 13 alle 16 impegnarsi nel compito B ), la seconda detta “Event Time” (tempo degli eventi, l’individuo è stimolato dal grado di progresso fatto sul compito; es: «inizio il compito A, faccio una pausa quando il compito A è completato e poi impegnarsi nel compito B»). Dagli esperimenti fatti risulta che la strategia “Clock Time” sembra funzionare meglio per obiettivi a lungo termine, mentre la strategia “Event Time” sembra essere più adatta a obiettivi a breve termine.

Di fondamentale importanza risulta essere la fase di chiusura di un ciclo di allenamento, anche se spesso scarsamente considerata. Tale fase permette al coach e all’atleta una presa di coscienza e di crescita rispetto all’obiettivo ed è parte integrante del processo di allenamento. Per fare questo ci si potrebbe aiutare con una scheda valutativa simile a questa (Rossi & Sabbatini, 2021):

Fig. 1.5 scheda auto-valutativa di monitoraggio settimanale

Per concludere, studi recenti (Mierlo & Hooft, 2020) hanno posto più l’accento sul concetto di obiettivi di squadra che non individuali. Definiti come Obiettivi di Realizzazione di Squadra, sono considerati il risultato concreto della motivazione di un gruppo che emergono nel tempo. Per spiegare questa teoria vengono presi in esame due dimensioni: la motivazione dell’approccio (sforzarsi di ottenere un risultato positivo) e dell’evitamento (sforzarsi di evitare un risultato negativo), i quali vengono affiancanti alla Padronanza (competenza derivata da apprendimento) e alla Performance (vittoria o sconfitta). Nasce così il framework 2X2 di squadra il quale, in maniera appurata, ci porta alla conclusione che portare il focus del team su obiettivi di Padronanza – approccio e Performance – approccio, sono correlati al miglioramento delle prestazioni di squadra. Si deve stare attenti alle conseguenze del clima motivazionale che coach/insegnante crea e come questo viene percepito dalla squadra. Non sappiamo se la percezione della prestazione e del complesso squadra sia uguale per tutti i membri del team. Gli atleti hanno due modi per interpretare le loro competenze: una concezione verso il compito e/o verso l’ego (Balaguer et al., 2002). L’aumento del clima di coinvolgimento dell’ego all’interno di un gruppo può portare ad influenzare negativamente la percezione di coesione del gruppo e alla diminuzione del clima di coinvolgimento verso il compito (Durdubas et al.,2019). Per cercare di non incorrere in questa problematica una soluzione potrebbe essere quella di creare un clima motivazionale che tende al compito dove l’allenatore promuove un modo più autoreferenziale e incentrato sulla padronanza degli atleti che giudicano il proprio gioco e quello della squadra. In questa maniera le valutazioni sul livello di gioco sono sotto il controllo dell’atleta e questo dovrebbe portare ad una maggiore soddisfazione (Balaguer et al.,2002). Porre l’atleta al centro del processo di crescita del team sembra essere la soluzione migliore a patto che gli obiettivi siano rivolti verso il compito, siano sì difficili ma fattibili, per non creare ansia e stress. Gli allenatori dovrebbero incoraggiare le persone a raggiungere i loro obiettivi e porre l’accento sulla risoluzione di eventuali problemi e non sulle critiche (Arraya et al., 2015).

1.3.2 Esecuzione del compito

Come detto all’inizio, l’apprendimento è: ”il processo cognitivo che ci consente di acquisire nuove informazioni in maniera consapevole, quindi volontaria, e in maniera inconsapevole, quindi involontaria. Nel primo caso parliamo di apprendimento ESPLICITO, nel secondo caso di apprendimento IMPLICITO” (Mandolesi 2017, pag.125).

Tendenzialmente, le prestazioni di un soggetto migliorano più velocemente tramite l’acquisizione di informazioni verbali (es: acquisizioni di regole) e attraverso l’apprendimento esplicito. L’apprendimento implicito, invece, è molto più lento e graduale e si basa sulla ripetizione di numerose prove ed è più efficace in compiti più complessi (Sun et al., 2005) (Mandolesi, 2017). Anche l’apprendimento motorio non esente da questi due diversi tipi di acquisizione delle abilità. Da un lato, il metodo tradizionale esplicito nel quale vi è una fase verbale-cognitiva, nella quale il soggetto acquisisce in maniera dichiarativa gli aspetti tecnici dell’abilità motoria, ed una fase finale autonoma in cui l’abilità diventa un processo automatizzato. Dall’altro lato i metodi impliciti di allenamento, nei quali questa conoscenza dichiarativa non è obbligatoria, sono molto più impattanti sui processi automatici (Kal et al., 2018). Tale processo è stato riscontrato anche in atleti di calcio d’élite e non élite. Nella fase di apprendimento esplicito non vi erano differenze nell’imparare più velocemente, cosa che invece succedeva quanto si somministrava apprendimento implicito (Verburgh et al., 2016). Le nuove evidenze scientifiche ci portano quindi a riconsiderare la velocità con la quale si apprende in maniera implicita. L’apprendimento è già visibile anche solo dopo poche prove “perturbate” (variazioni delle condizioni in cui si presenta abitualmente un fenomeno) e può precedere comportamenti espliciti (Ruttle et al., 2020). Ma quali sono le metodologie esecutive per migliorare l’apprendimento implicito? Dalle evidenze scientifiche questi processi possono essere:

INTERFERENZA CONTESTUALE: esercizi che includono compiti multipli per stimolare le aree sensomotorie e premotorie del cervello, migliorando l’apprendimento motorio. Elevata interferenza porta ad una maggiore ritenzione e trasferimento delle abilità motorie nel lungo periodo (Shea & Morgan, 1979). Si è visto inoltre come tale interferenza modifichi in modo significativo le abilità nei soggetti principianti ed esperti, condizionati però dalla facilità/complessità del compito e anche dai livelli di esperienza dei soggetti. Più è alto il livello di esperienza e più il compito che presentiamo deve possedere una complessità alta per poter performare i soggetti a livello di apprendimento (Ollis et al.,2005). Per far fronte alla problematica del compito e dell’esperienza dei soggetti si è notato come un crescente utilizzo dell’interferenza contestuale possa aiutare a migliorare le prestazioni sportive con alta complessità, rispetto ad una quantità fissa di interferenza (Porter & Magill, 2010). Tale studio però non venne portato avanti in un ambiente di apprendimento “aperto”; al contrario, se il trasferimento di competenze deve avvenire in ambiente aperto, la pratica casuale fornisce un vantaggio rispetto ad una progressiva combinazione di pratica bloccata e casuale (Farrow & Buszard, 2017). Si è anche studiato come un’alta interferenza possa contribuire in maniera significativa al miglioramento delle abilità percettivo-cognitive dell’anticipazione motoria, purché vengano utilizzati programmi di pratica simili alla competizione sportiva (Broadbent et al., 2015).

PRATICA CASUALE: abbiamo analizzato in precedenza quale importante ruolo giochi nell’acquisizione di abilità l’alta interferenza contestuale. Per sostenere tale pensiero, un altro aspetto sul quale si basa l’apprendimento implicito è quello della Pratica Casuale. Conosciamo due tipi di pratica casuale: random o seriale. Nelle abilità aperte (giochi di situazione) si determina la pratica random, nelle abilità chiuse è più comodo allenare per pratica seriale. Da un importante numero di studi scientifici si evince come la pratica casuale produca effetti vantaggiosi in termini di transfer e apprendimento a lungo termine rispetto ad una pratica per blocchi (Bortoli & Robazza, 2016). Già (Schmidt, 1975) aveva postulato nella sua teoria che la quantità della pratica e la sua variabilità erano parametri fondamentali per il transfer di apprendimento. Per variabilità si intende, oltre che la scelta e utilizzo di nuovi parametri di risposta dello stesso programma motorio (es: tiri in porta da diverse distanze), anche l’esecuzione di più movimenti controllati da programmi diversi (dribbling, conduzione, tiro) (Bortoli & Robazza, 1992). Tale pratica deve avvenire in un contesto ambientale che sia il più simile possibile a quello che si può trovare in gara e sottoforma di gioco (Broadbent et al., 2015, Cheong et al., 2016).

Suddetta pratica si basa su due teorie di elaborazione cognitiva: l’ipotesi dell’oblio-ricostruzione (Lee & Magill, 1983, 1985), dove la pratica casuale porta il soggetto a dimenticare le informazioni specifiche del compito tra le varie prove, richiedendogli poi di ricostruire il piano d’azione per ogni prova; l’ipotesi dell’elaborazione (Shea & Morgan, 1979, Shea & Zimny, 1983), nella quale il soggetto si ritrova ad elaborare in maniera più rappresentativa e distintiva un’abilità motoria nella propria memoria, quando l’individuo è soggetto al confronto e contrasto delle abilità pratiche durante la pratica casuale (Farrow & Buszard, 2017). Possiamo riassumere le differenti teorie di variabilità della pratica come:

Fig. 1.6 The various types of variability of practice

DIFFERENTIAL LEARNING: presentata per la prima volta (Schollhorn, 1999), tale metodologia di pratica si sta diffondendo molto rapidamente. A differenza della teoria riduzionista, l’apprendimento differenziale si basa innanzitutto sulla non – linearità degli eventi (no causa – effetto), incentrando gli studi sull’individualità all’interno della teoria dei sistemi dinamici (Schollhorn, 1999). Tale teoria prevede la presenza di fluttuazioni (errori) per l’apprendimento. Si alimentano meccanismi di movimento che consentono di reagire in modo adeguato e rapido a situazioni sempre nuove (rumore). Si instaura così un processo di auto-organizzazione supportato dalla capacità di eseguire il movimento senza coscienza (Schollorn, 1999). L’auto-organizzazione è propria dell’individualità e avviene tramite esercizi variati e non ripetuti. Come detto in precedenza la variabilità casuale (rumore) può migliorare le prestazioni di apprendimento, come studiato in un esperimento sul calcio (Schollhorn et al.,2006), a patto che si consideri l’individualità all’interno dei programmi di allenamento. Si presume che il miglioramento delle prestazioni attraverso il “rumore” possa essere spiegato dalla teoria della risonanza stocastica (Ward et al., 2002); ovvero: “un processo cooperativo non lineare in cui l’aggiunta di un processo casuale, o “rumore”, a un segnale debole, o stimolo, si traduce in una migliore rilevabilità o in un maggior contenuto di informazioni in una certa risposta” (Ward et al, 2002).

Come queste perturbazioni stocastiche possano migliorare l’acquisizione di abilità motorie è stato studiato in un esperimento condotto su atleti giovani di salto ad ostacoli (Schollhorn et al., 2010). Si evince da questo studio come l’allenamento differenziale porti il soggetto a non eseguire mai lo stesso movimento, al quale veniva aggiunto sempre un compito aggiuntivo. Notare che in questo studio non venivano date correzioni tra i vari movimenti, proprio per consentire all’atleta di trovare la propria soluzione migliore per il compito di movimento richiesto (Schollhorn et al., 2010, Schollhorn et al., 2012). Possiamo anche qui riassumere questa particolare tipologia di apprendimento, come segue:

Fig. 1.7 Differential Learning approach.

Infine, oltre all’aspetto di acquisizione motoria, è stato dimostrato come l’apprendimento differenziale sia interconnesso sul ruolo della DOPAMINA. Il suddetto neurotrasmettitore svolge un ruolo importante nei processi di attenzione, motivazione, dipendenza e apprendimento. Si è visto come il cervello rilasci molta più dopamina in caso di incertezza di risultati sportivi e dall’entità della potenziale ricompensa (Fiorillo et al., 2003). Tenuto conto di queste informazioni possiamo presumere che un apprendimento differenziale caotico possa produrre un maggior rilascio di dopamina a differenza dell’apprendimento basato sulla ripetizione (Schollhorn et al., 2018).

1.3.3 Feedback

Il feedback, come informazione, è un fattore cruciale nell’apprendimento di capacità motorie. Lo studio su giovani praticanti di educazione fisica (Han et al., 2022) descrive come il feedback esterno porti a dei miglioramenti che riguardano l’apprendimento anche se alcuni esperimenti non hanno supportato in maniera evidente tale teoria. Questo è da imputare al fatto che la somministrazione di feedback è avvenuta sottoforma di sottotipi o combinazione di sottotipi di feedback (es: visivo o verbale, informativo o correttivo, autocontrollato o regolamentato). Sempre da suddetto studio è emerso come la combinazione di feedback visivo-verbale e il solo feedback visivo possono migliorare le capacità motorie e che possa avere la stessa influenza il feedback correttivo.

Tale studio è stato supportato da una revisione fatta nel 2021 (Zhou et al., 2021), nel quale si va ad avvalorare la tesi del feedback visivo (dimostrazione video dell’abilità da parte di atleti d’élite) rispetto a quello verbale (Rizzolatti et al., 1996). Stesso discorso per il feedback correttivo che, abbinato alle lodi, risulta efficace nell’apprendimento di abilità complesse. Questo tipo di feedback se espresso in positivo e con spunti didattici su come correggere la tecnica, migliora l’autostima e l’apprendimento di abilità facili; mentre un feedback abbinato positivo abbinato ad errori e spunti didattici, migliora l’autostima e le prestazioni in abilità complesse (Tzetzis et al., 2008).

Si è visto, inoltre, nonostante l’adattamento motorio avvenga tramite processi di apprendimento sull’errore sensoriale, l’utilizzo di un feedback di ricompensa associato ad uno visivo acceleri il processo di apprendimento ecologico, nel quale si fronteggiano cambiamenti bruschi ed improvvisi (Nicooyan & Ahmed, 2015). Anche la quantità di feedback ricopre un ruolo molto importante e varia in base all’età del soggetto. Da uno studio di (Sullivan et al., 2008) è stato osservato come la frequenza con la quale veniva somministrato il feedback fosse molto utile nei bambini, mentre negli adulti una riduzione notevole di suddetto feedback avesse portato vantaggi nell’acquisizione di abilità motorie. Ovviamente questo si può spiegare con l’abilità motoria dei soggetti (principianti o esperti). A mano a mano che le abilità si sviluppano la frequenza del feedback viene ridotta.

In conclusione: “anche se il feedback è importante per sviluppare il movimento fino ad un pattern abile, sembra che esso alla fine debba essere tolto per ottenere un apprendimento permanente delle abilità, il fading del feedback” (Schmidt & Lee, 2023).

Capitolo 2. LEADERSHIP EMOTIVA

2.1 Definizione di leadership efficace

In ambito sportivo e nel campo dell’apprendimento, le proposte di allenamento elaborate attraverso le numerose teorie che abbiamo visto in precedenza, stanno evolvendo nel tempo diventando sempre più elaborate e impegnative. Diventa quindi fondamentale, in un contesto così complesso, la relazione che si viene a creare tra l’individuo/atleta e lo stile di leadership e di comunicazione dell’allenatore. Il concetto di leadership può avere numerose sfumature attorno al suo significato principe: “è la capacità di una persona di essere riconosciuta dagli altri come riferimento importante e autorevole, e di ottenere un’attivazione consensuale e volontaria sulla base di una condivisione di obiettivi comuni da raggiungere” (Rossi & Sabbatini, 2021).

Nonostante ciò, la leadership ha sempre avuto un ruolo e significato ambiguo (Pfeffer, 1977) perché difficile da distinguere da altri fenomeni di influenza sociale. Inoltre, la figura del leader viene vista come una figura influenzata da un background sociale che meritocratico (Pfeffer, 1977). Tuttavia, alcuni studi precedenti (Palmer, 1962) affermano che la leadership efficace abbia: “abbia successo quando l’effetto dell’influenza di una persona è quello di provocare un cambiamento nel comportamento di un’altra”. In studi successivi (Hogan & Kaiser, 2005) la leadership viene vista come: “capacità di costruire e mantenere un gruppo che si comporta bene rispetto alla concorrenza”. Da questa affermazione si evince che la leadership dovrebbe essere valutata in termini di prestazioni nel tempo.

Inoltre un leader efficace deve possedere 4 virtù (Hogan & Kaiser, 2005):

1- INTEGRITA’: il leader mantiene la parola data e le promesse; non fa favoritismi e non approfitta della propria situazione di leader.

2- RISOLUTEZZA: il leader prende decisioni in modo tempestivo sia in condizioni normali che in quelle di crisi e incertezza.

3- COMPETENZA: il leader è una risorsa per il gruppo, si distinguono dal gruppo per la superiore capacità.

4- VISIONE: il leader è un visionario, spiega lo scopo al gruppo e il significato delle sue imprese. “Il leader è un mercante di speranza”.

In una successiva revisione (Hannah et al.,2008) si è cercato di dare una struttura più ampia al ruolo dell’efficacia del leader affiancata alla leadership del collettivo e dei sui seguaci. Quando queste strutture condividono una visione positiva delle loro capacità di influenzarsi a vicenda in modo costruttivo al fine di ottenere buoni risultati aumentando di fatto le prestazioni collettive, ne consegue il suddetto modello (Figura 2.1):

Figura 2.1

Le implicazioni future di tale revisione ci porta a dover approfondire come l’autoefficacia del leader e dei seguaci possa influenzare il processo di leadership.

Già (Knippenberg & Hoog, 2003) avevano elaborato un modello (SIMOL) nel quale il leader è considerato un prototipo del gruppo, la cui leadership è orientata verso il gruppo. Tale modello prevede:

Fig. 2.2. An Overview of the Core Propositions of the Social Identity Model of Organizational Leadership.

Il modello sostiene che l’efficacia del leader dipende dalla sua capacità di rappresentare il gruppo di appartenenza e tende ad influenzare il gruppo quando sono visti come “uno di noi”. Questa identificazione tende ad aumentare la motivazione del gruppo spingendo i loro membri a lavorare per il bene comune.

Ovviamente la fiducia del leader aumenta quando i membri del gruppo percepiscono che egli lavora nel miglior interesse del gruppo (Knippenberg & Hoog, 2003). In una revisione di tale lavoro fatta da Knippenberg (2011) si è cercato di studiare e dare importanza alla prototipicità del gruppo, ovvero al senso di appartenenza al gruppo del leader e dei suoi seguaci. L’appartenenza ad un gruppo riflette su come vediamo noi stessi e gli altri e si riferisce a quella parte del senso di sé dell’individuo che è radicata nell’appartenenza al gruppo dell’individuo; quello che alle persone dà la sensazione del “noi”. Più un individuo ha il senso del “noi” connesso a quel gruppo, più l’individuo si sente di appartenere a quel gruppo. Più un individuo si identifica in un gruppo, più percezioni, atteggiamenti e comportamento sono governati dall’appartenenza al gruppo. Tali prototipi di gruppo saranno tanto più “performanti” quanto sarà il livello di somiglianza del leader con il prototipo di leadership del suddetto gruppo.

Un approccio “universale” di leadership efficace è stato proposto, attraverso uno studio elaborato, da R. Blake e J Mouton (1964-1991). Tale modello è caratterizzato da una griglia (Managerial Grid) che serve ad identificare i vari stili di leadership in base a due parametri (Rossi & Sabbatini, 2021:

  • L’orientamento al compito: ricerca dell’efficacia ed efficienza del compito assegnato al fine di ottenere il miglior risultato (sportivo, aziendale ecc…).
  • L’orientamento alla persona: costruzione di una relazione positiva, volta al miglioramento continuo, crescita, autorealizzazione, consapevolezza, maturità dell’individuo / sportivo.

Fig. 2.3 Managerial Grid

Da tale griglia ne consegue che il leader Ideale incarna le seguenti caratteristiche (Rossi & Sabbatini, pag. 18-22):

  • Orientamento al compito
  • Condivide il significato delle cose, motiva gli obiettivi sfidanti da raggiungere
  • Si fa carico del monitoraggio e feedback dei risultati raggiunti
  • È consapevole che i SÌ e i NO fanno parte della responsabilità del proprio ruolo
  • Promuove la consapevolezza, l’assunzione della responsabilità e impegno personale
  • Orientamento alla persona
  • Crea un clima stabile e tranquillo nel rapporto con l’individuo e la squadra
  • I conflitti sono considerati come momenti importanti di crescita e consapevolezza
  • Valorizza l’individuo/atleta rafforzando il suo senso di autoefficacia e fiducia in sé
  • Promuove e valorizza la cultura dell’accoglienza e delle differenze tra individui e riconosce l’unicità della persona
  • Costruisce e rafforza il senso di appartenenza e affiliazioni al team/squadra
  • Promuove e facilita l’apprendimento attraverso l’acquisizione di nuove abilità e conoscenze
  • Lascia spazio di autonomia personale all’interno di regole, in funzione al contesto e dinamiche di relazione
  • È un punto di riferimento stabile, fiducioso, imparziale, coerente per tutti

Possiamo riassumere tutte queste definizioni sotto un’unica dicitura che ha preso piede negli anni, considerata come il “segreto” di un buon leader di esplicare in maniera ottimale la propria leadership, ovvero l’INTELLIGENZA EMOTIVA.

2.2 Definizione di intelligenza emotiva

Wikipedia definisce l’intelligenza emotiva come: “una componente dell’intelligenza che consiste nella capacità di percepire, valutare e comprendere, utilizzare e gestire le emozioni. Le persone con una elevata intelligenza emotiva sanno riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, distinguerle tra di esse e utilizzare le informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”.

Trattata per la prima volta nel 1990 (Salovey & Mayer) viene concettualizzata come segue:

Fig. 2.4 Conceptualizazion of emotional intelligence

Da questo schema si evince come l’intelligenza emotiva passi attraverso la percezione, la regolazione e l’uso delle emozioni sia verso sé stessi che verso gli altri. I soggetti che riescono a sviluppare competenze emotive, riconoscendo le proprie e altrui emozioni, usano gli stati d’animo per risolvere problemi in maniera adattiva e possono anche motivare le persone a perseverare dinnanzi alle sfide (Salovey & Mayer, 1990).

Questo tema viene poi approfondito successivamente da Goleman (1995) il quale definisce l’intelligenza emotiva come l’insieme di tante caratteristiche come: capacità di motivare sé stessi e persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare e, ancora, la capacità di essere empatici e di sperare (Goleman, 1995, pag. 65).

Da uno studio portato avanti da (Ciarocchi et al., 2000), attraverso la somministrazione di un test (MIES – Multifactor Emotional Intelligence Scale), viene definito come l’intelligenza emotiva sia un predittore significativo per i processi futuri nelle relazioni e nelle carriere, suggerendo inoltre programmi di formazione per migliorare questo tipo di intelligenza nelle persone. Il modello più utilizzato per studiare le abilità legate all’elaborazione delle informazioni emotive è quello di (Mayer & Salovey, 1997). Il così detto Modello a quattro rami dell’Intelligenza Emotiva suddivide le quattro abilità principali dell’intelligenza emotiva:

  • Percezione: capacità di decifrare e rilevare emozioni nei volti, immagini e voci altrui oltre che la capacità di identificare le proprie;
  • Utilizzo: capacità di sfruttare le emozioni per facilitare i processi cognitivi, come il pensiero e la risoluzione dei problemi;
  • Comprensione: capacità di comprendere il linguaggio delle emozioni e di apprezzare le relazioni complicate tra le emozioni e come queste evolvono nel tempo (es. come lo shock può trasformarsi in dolore);
  • Gestione: capacità di regolare le emozioni nostre e degli altri.

Questo modello è stato costruito sulla base di un test di abilità (MSCEIT – Mayer-Salovey-Caruso Emotional Intelligence Test) nel quale veniva testata la capacità di un soggetto, rispetto ai quattro punti precedenti, il quale generava dei punteggi per ciascun punto ed un punteggio totale finale. Dai punteggi ottenuti si evince come le abilità emotive contino in tutti gli ambiti della vita; bassi punteggi nel test predicevano un comportamento deviante negli adolescenti mentre punteggi alti rispecchiano individui più propensi a fornire supporto nei momenti di bisogno.

Inoltre si è visto come tale intelligenza può aiutare nelle relazioni con i loro partner e coniugi. Infine, essa può essere molto importante nel lavoro (gestione dello stress e dei conflitti riflette sulla leadership) (Salovey & Grewal, 2005). Riassumendo, possiamo quindi definire l’intelligenza emotiva come la capacità di un individuo di elaborare un ragionamento accurato incentrato sulle emozioni, nonché la capacità di utilizzare tali emozioni e conoscenza emotiva per migliorarne il pensiero (Mayer et al.,2008).

2.3 Acquisire ed incrementare intelligenza emotiva

Prendendo in prestito le parole di Goleman (1995, pag.68) è possibile affermare che: “l’attitudine emozionale è una meta-abilità, in quanto determina quanto bene riusciamo a servirci delle nostre altre capacità – ivi incluse quelle puramente intellettuali”. Da questa frase è possibile estrapolare un concetto molto importante e cioè che le competenze emozionali possono essere apprese e potenziate già nei bambini, a patto che gli adulti si prendano il disturbo di insegnare a loro come fare (Goleman, 1995).

Lo psicologo statunitense ci porta alla scoperta del così detto programma della Scienza del sé (pensato e sviluppato dall’educatrice americana Karen Stone Mccown nel 1978), ovvero un modello di insegnamento dell’intelligenza emotiva impregnato su tre punti fondamentali (Goleman, 1995):

  • Autoconsapevolezza: capacità di riconoscere i sentimenti e costruirne un pensiero logico per capire se le decisioni vengono prese in base ad una riflessione o sentimento, nonché la capacità di riconoscere la propria forza e debolezze;
  • Controllo delle emozioni: capire cosa sta dietro ad un sentimento e imparare e controllare ansia, collera e tristezza. Si dà molta importanza all’assunzione di responsabilità verso le decisioni prese e il mantenimento degli impegni assunti;
  • Empatia: capacità di comprendere i sentimenti altrui e assumere il punto di vista dell’interlocutore. Si dà risalto al saper ascoltare e porre domande. Si insegna inoltre l’arte della collaborazione della risoluzione dei conflitti e negoziazione dei compromessi.

L’obiettivo finale di tale programma rimane quello di implementare la collaborazione, la discussione, il problem solving di gruppo nell’affrontare e nel capire le emozioni, dando ad ognuna di esse un nome ed un modus operandi su come poterle affrontare per ridurre la loro intensità (emozioni negative) o aumentarla (emozioni positive). Si è infatti successivamente studiato come “etichettare” le emozioni possa attenuare le esperienze emotive. Tale etichettatura affettiva può essere rivolta ai propri sentimenti (es: mi sento arrabbiato) o rivolta ad uno stimolo affettivo esterno (es: quella persona sembra arrabbiata). È stato dimostrato che l’etichettatura affettiva diminuisce l’attività dell’amigdala (es: abbassamento dei livelli di ansia) (Torre & Lieberman, 2018).

Ma l’EI è possibile “allenarla” per poterla incrementare?

Da uno studio svolto da (Nelis et al., 2009) si evince che i partecipanti, ai quali è stato somministrato un disegno sperimentale e un programma di formazione teoricamente fondato, hanno avuto un significativo cambiamento nella gestione delle emozioni e identificazione delle emozioni, sia proprie che altrui, rispetto al gruppo di controllo.

Un alto livello di EI predice inoltre una migliore salute psicologica e di salute ed un impatto positivo sulle relazioni e sul rendimento lavorativo/scolastico, anche se quest’ultimo necessita di studi più approfonditi (Kostou et al, 2019). Tale studio è stato successivamente revisionato da (Lim & Lau, 2021), i quali utilizzando le stesse strategie di ricerca di (Kostou et al., 2019) hanno sentenziato che oltre al test MESCIT, sono stati trovati altri metodi di misurazione dell’abilità di EI come il STEU (Situational Test of Emotion Understanding) e il STEM (Situational Test of Emotional Management). Si è giunti così alla formazione di due tipi di approcci che hanno evidenziato come l’abilità di EI può essere migliorata e allenata. Tali approcci sono:

  1. CAPACITÁ DI INSEGNAMENTO DELL’EI: attraverso workshop, giochi di ruolo, presentazioni, sessioni di pratica, visite all’aperto si sono implementati l’istruzione e l’apprendimento educativo. Tali miglioramenti sembrano essere associati ad un aumento della conoscenza emotiva associata alla memoria a lungo termine;
  2. ALLENAMENTO CEREBRALE EI: attraverso l’uso di programmi computerizzati per migliorare l’elaborazione delle info verbali e uditive, si sono visti miglioramenti nella percezione e riconoscimento delle emozioni attraverso un miglioramento dei processi neuro-cognitivi.

Entrambi gli approcci possono essere spiegati attraverso la teoria della Neuroplasticità. Temine portato alla ribalta da due italiani (Tanzi, 1893) e (Lugaro, 1900) che, sostenendo in maniera pionieristica la Teoria del Neurone di Cayal, elaborarono la prima vera ipotesi di plasticità neuronale. Possiamo, infine, descrivere come l’EI ricopra un ruolo fondamentale nelle prestazioni sportive. Da una revisione scientifica di (Laborde et al, 2016) è stata stilata una teoria dell’intelligenza emotiva basata su tre livelli:

CONOSCENZA (le persone sanno delle emozioni),

ABILITÁ (grado di capacità delle persone di regolazione delle emozioni),

TRATTO (comportamento adottato dalle persone durante le situazioni emotive).

Allenando atleti e allenatori al miglioramento dell’EI, miglioreranno sia prestazioni che relazioni, contribuendo ad un clima positivo. Già in uno studio fatto in precedenza (Crombie et al., 2011) dove atleti sottoposti ad un programma di “apprendimento esperienziale” provavano situazioni sotto pressione, è emerso come un allenamento fisico affiancato ad un programma di formazione e sviluppo dell’EI possa contribuire a migliorare le prestazioni.

Oltre al miglioramento delle prestazioni, l’intelligenza emotiva ha un valore predittivo anche sulla salute fisica migliorando la pratica dell’attività fisica; infatti, gli individui emotivamente più intelligenti sono più motivati ad impegnarsi in un’attività fisica regolare perché vi è la possibilità di interazione sociale e perché sono associati livelli più alti di calma e felicità insieme ad una riduzione della rabbia, depressione e stanchezza.

Inoltre, da questa revisione sistematica che ha studiato circa 311 articoli che parlano di intelligenza emotiva (Jimenez et al.,2019), si evince che l’EI sia un fattore influente nello sport, perché aiuta gli atleti nel ragionamento, nel problem solving, nella memoria e nel decision making. Nel processo decisionale il riconoscimento delle emozioni individuali risulta fondamentale non solo per determinare le motivazioni che stanno alla base di tutte le decisioni, ma anche l’impatto che tali decisioni hanno sugli altri (Hess & Bacigalupo, 2011).

Capitolo 3. Il coaching nel processo di apprendimento sportivo

3.1 Comunicazione efficace

Partendo dal presupposto che le persone entrano in relazione tra di loro attraverso la comunicazione, possiamo considerare quest’ultima come il mezzo, per eccellenza, con cui gli umani interagiscono. Cerchiamo quindi di presentare un approccio chiaro e scientifico della comunicazione sintetizzando i 5 assiomi di Watzlawick (Watzlawick et al., 1967):

👉🏻 NON SI PUÒ NON COMUNICARE: non sempre è necessaria l’intenzione per mettere in relazione due persone; pur tacendo si può trasmettere un messaggio e quindi anche il comportamento è di per sé un atto comunicativo;

👉🏻 CONTENUTO E RELAZIONE: quando comunichiamo non trasmettiamo solo un’informazione all’altro, ma anche la nostra relazione che abbiamo con l’altro soggetto (es: “quando calci un rigore, porta in avanti il busto così mantieni radente la palla). La relazione è di fiducia verso l’atleta (Rossi & Sabbatini, 2021);

👉🏻 PUNTEGGIATURA DELLE SEQUENZE DELLA COMUNICAZIONE: il processo comunicativo si basa sulla triade stimolo-risposta-rinforzo (es: Stimolo (allenatore): «oggi hai fatto uno splendido allenamento in difesa!» Risposta (atleta): «mi sono accorto di riuscire a stare sempre nella giusta posizione» Rinforzo (allenatore): «sono davvero contento del progresso che stai facendo!»). Ovviamente, l’esempio si basa sull’assioma 2 e se questa triade viene mal gestita può generare un conflitto tra soggetti (Rossi & Sabbatini, 2021);

👉🏻 COMUNICAZIONE LOGICA E ANALOGICA: la comunicazione umana avviene in modalità logica (frasi e parole) e analogica (comportamento non verbale o paraverbale). Mentre la comunicazione digitale è più precisa, quella analogica è più ricca di significato relazionale; quindi la traduzione delle due modalità risulta essere complessa e può portare a malintesi;

👉🏻 LA COMUNICAZIONE È SIMMETRICA O COMPLEMENTARE: le interazioni possono essere simmetriche (uguaglianza tra partner) o complementari (differenze tra i partner). Un esempio esplicativo nella figura sotto:

Figura 3.1 Simmetria e complementarietà della comunicazione

Tanto più l’orientamento del coach sarà focalizzato sul risultato, tanto più la comunicazione tenderà alla complementarietà, relegando l’atleta a mero esecutore. Quando, invece, l’orientamento dell’allenatore sarà focalizzato sulla crescita e maturazione dell’atleta, la comunicazione potrà essere simmetrica; favorendo così la sua consapevolezza, responsabilizzando l’atleta nelle scelte.

3.1.1 Spiegazione efficace

Per introdurre questo argomento credo ci sia una domanda fondamentale che ogni allenatore debba porsi ogni qualvolta si trova dinnanzi al compito di comunicare un qualsiasi gesto tecnico o spiegazione inerente all’apprendimento: “Come posso facilitare la comprensione e l’attuazione di ciò che dico?”. 

Innanzi tutto è bene sapere che la decodifica del messaggio e la sua comprensione, entrambi funzionali all’apprendimento, sono influenzati dalla non negatività; ovvero il nostro cervello difficilmente registra le negazioni (Tettamanti et al., 2008, Rossi & Sabbatini, 2017, Christensen, 2009). Il messaggio diventa quindi il seguente: “Parla di ciò che vuoi ottenere, non di ciò che non vuoi”. Come secondo postulato possiamo affermare che decodifica e comprensione sono attivate attraverso i cinque sensi e quindi la percezione di esse è soggettiva. Nonostante le prove a scientifiche siano poco concordi sull’attuazione di questo modello a tutte le area dell’apprendimento (Fallace, 2023), il metodo VAK è il più riconosciuto. Tale modello descrive la presenza di tre canali preferenziali di apprendimento, che sono influenzati dalla soggettività dell’individuo e tale modello può migliorare il processo di apprendimento.

I tre canali sono (Rosdiana et al., 2022, Rossi & Sabbatini, 2021):

✔️ VISIVO: l’individuo apprende attraverso le immagini, la lettura, le dimostrazioni, gli schemi ecc.;

✔️UDITIVO: l’individuo apprende attraverso l’ascolto e le spiegazioni verbali, attraverso suoni, racconti, aneddoti;

✔️ CINESTESICO: l’individuo apprende attraverso l’interazione fisica con gli oggetti e l’azione, che suscitano in lui emozioni, sensazioni, odori, sapori ecc.

La cosa più complessa è capire quali canali preferenziali usano gli individui. Attraverso l’ascolto e l’attenta osservazione possiamo scoprire quale sia il sistema predominante. Questa ipotesi è definita anche ipotesi del meshing, cioè la presentazione dovrebbe integrarsi con le proprie inclinazioni dell’individuo, anche se a tal proposito gli studi sembrano far vacillare questa ipotesi (Pashler et al.,2008). Infatti, considerato il fatto che il modo più semplice per stabilire lo stile di apprendimento passa attraverso la compilazione di un test o un questionario, essi possono essere influenzati dalla mancanza di motivazione e di autoconsapevolezza dell’individuo (Feldman et al., 2014). Il rilevamento automatico degli stili di apprendimento sembra essere un’alternativa appropriata ai questionari data la loro accuratezza che si aggira intorno al 90% (Feldman et al., 2014). Tale conclusione viene tratta basandosi anche su un altro studio (Mehenaoui et al., 2022) che ne esalta l’efficacia utilizzando sempre il rilevamento automatico basato sul modello di Felder e Silverman (FSLSM). Riuscendo a stabilire a priori quale canale di apprendimento predilige un soggetto, ecco che l’allenatore potrà adattare la modalità comunicativa ad ogni singolo atleta, fornendo una dimostrazione pratica (VISIVO), un racconto sul “rumore” dell’esecuzione corretta (UDITIVO) o anticipare le sensazioni propriocettive dell’esecuzione dell’esercizio (CINESTESICO).

3.1.2 Feedback di correzione attiva

Per la Treccani la parola feedback letteralmente significa: «retroazione, che designa il processo per cui l’effetto risultante dall’azione di un sistema (meccanico, organismo, ecc.) si riflette sul sistema stesso per variarne o correggerne il funzionamento». Secondo (Rossi & Sabbatini, 2021) il feedback nell’allenamento sportivo è di due tipi:

✔️ ESTERNO: l’informazione di ritorno è data direttamente dall’allenatore, relativa a elementi significativi dell’esecuzione;

✔️ INTERNO: l’informazione di ritorno è stimolata dall’allenatore sotto forma di domande all’atleta, con l’obiettivo di portare la sua attenzione sull’esecuzione (autocorrezione).

Studi scientifici in merito sostengono che il feedback esterno migliori l’apprendimento di abilità motorie complesse migliorando la precisione e l’efficienza della pratica nel calcio e nel volley (Wulf et al., 2002, ALALI et al., 2013). Inoltre si è studiato come il feedback esterno sia un mezzo anche per prevenire le lesioni del LCA (Zalbeik et al., 2020). Tale feedback, risulta efficace nell’acquisizione di competenze quando viene fornito in modo strategico, preciso, via via sempre meno frequente perché può creare dipendenza e ostacolare l’apprendimento (Sunaryadi & Sartoro, 2017, Schmidt & Lee, 2023).

Ma come può influire negativamente sull’apprendimento?

Partiamo dal presupposto che il feedback correttivo si basi su due parametri:

✔️ CONOSCENZA DEI RISULTATI (KR): informazioni verbali date al termine dell’esecuzione di un movimento che riguardano il successo di una azione rispetto ad un obiettivo ambientale; è utile quando il gesto/movimento eseguito è conosciuto e acquisito (Rossi & Sabbatini, 2021, Schmidt & Lee, 2023);

✔️ CONOSCENZA DELLA PERFORMANCE (KP): informazioni relative a elementi interni che compongono l’esecuzione del gesto che informano l’allievo sulla cinematica del movimento o del pattern motorio; è utile in fase di apprendimento cioè quando l’esecuzione non è completamente acquisita (Rossi & Sabbatini, 2021, Schmidt & Lee, 2023).

La letteratura scientifica afferma che, generalmente, il KP è più efficace rispetto al KR per l’apprendimento e la ritenzione delle abilità motorie, mentre il KR è utile per aspetti specifici della prestazione (Janelle et al., 1997, Zhu et al., 2019, Oppici et al., 2021). Quando forniamo tali feedback focalizziamo il processo attentivo dell’atleta proprio sul feedback stesso. Quindi se focalizziamo l’attenzione dell’individuo su troppi feedback contrapposti (KR + KP), creeremo nell’atleta un potenziale conflitto di obiettivi all’interno dell’allenamento. La soluzione migliore rimane quella di ridurre la frequenza del feedback interno (pensare sempre meno all’esatta esecuzione del movimento) ed esterno (l’esito del gesto/movimento è visibile anche all’atleta). Tutto ciò porterebbe ad un aumento della prestazione (Schmidt & Lee, 2023, Wulf et al.,1993).

3.1.3 Feedback tra pari (peer to peer)

Un altro efficace metodo di comunicazione efficace che aiuta l’apprendimento sembra essere il feedback tra pari. Una buona interazione tra atleti dello stesso gruppo promuove apprendimento ed empatia verso il gruppo (Schmidt & Lee, 2023). Inoltre, tale approccio, sembra migliorare le prestazioni individuali all’interno di un contesto di squadra (Molodchik et al., 2021). Il feedback tra pari influisce anche sul tipo di leadership, infatti da uno studio di Loughead & Hardy, (2005) si è visto come i leader tra pari dimostrano livelli più elevati di due fattori motivazionali (feedback positivo e supporto sociale) e adottano uno stile decisionale più democratico. Infine, risulta molto efficace questo processo di feedback quando agli atleti viene data autonomia di scelta su quale gesto concentrarsi, aumentandone concentrazione e motivazione; influenzando lo stato d’animo dei soggetti che si sentono più a loro agio nel correggere i compagni e il clima di apprendimento e di interazione sociale che risulta essere migliorato (Ostergaard & Curth, 2014). Tale processo, per essere efficace, deve essere introdotto dall’allenatore in maniera graduale, cercando di trasmettere il messaggio che questo particolare tipo di feedback agisce in modalità duale; cioè migliora sia chi lo riceve sia chi lo genera (Rossi & Sabbatini, 2021). Fondamentalmente il feedback peer to peer può essere suddiviso in tre fasi (in maniera tale che gli atleti possano familiarizzare con tale tecnica) (Er et al., 2020):

Fig. 3.2 Theorical framework of collaborative peer feedback. (p) denotes peer providing feedback; and (s) denotes students receiving feedback.

Per facilitare l’acquisizione di tale feedback da parte degli atleti risulta essere utile stilare una scheda tecnica del compito da svolgere (può descrivere la quantità di esercizi o prove da eseguire ed essere uno strumento di acquisizione di nuove competenze), che possa così guidare l’atleta nel somministrare un feedback in tempo reale al compagno che sta eseguendo il compito motorio. Tale processo risulta essere efficace nell’apprendimento di obiettivi motori (Iserbyt et al., 2011).

3.1.4 Domande performanti

La particolarità che rende le domande efficaci è la loro finalità nello stimolare l’interlocutore a dare una risposta. Le domande del coach possono quindi condurre l’atleta a rilevare elementi e informazioni sia a livello interno (propriocettivo), che a livello esterno (risultati, situazioni, osservazioni, ecc.). Si possono quindi definire efficaci quelle domande che esaltano lo sviluppo della consapevolezza dell’atleta, delle scelte che intende portare avanti, alla loro attuazione e al senso delle stesse. La tendenza deve essere quella di responsabilizzare l’atleta delle sue azioni (Rossi & Sabbatini, 2021). Le domande a tal proposito possono essere convergenti (di chiusura, richiedono risposte specifiche e basse capacità cognitive) e divergenti (aperte, stimolano il pensiero critico e richiedono analisi e valutazione). Sta nella capacità del coach adattare le domande alle capacità e alle esigenze degli atleti, in quanto l’uso efficace delle domande migliora significativamente il processo di apprendimento (O’Connor et al., 2021). La capacità di porre domande è una importante abitudine mentale. Le domande che vengono poste dall’allenatore rivelano anche le loro aspettative sul potenziale dei loro atleti come pensatori. Inoltre la capacità di porre domande porta alla creazione di nuove idee e soluzioni migliori (Salmone & Barrera, 2021). Per fare questo potrebbe essere utile seguire il modello TfU (Teaching for Understanding); un quadro di riferimento che esalta la comprensione. Tale quadro si articola in tre domande (Salmone & Barrera, 2021):

  1. Cosa voglio veramente che i miei atleti capiscano? Perché?
  2. Cosa chiederò ai miei atleti di fare in modo che possano raggiungere quelle comprensioni?
  3. In che modo io e i miei atleti sapremo che stanno capendo?

Queste tre domande generali, che ci aiutano a capire in quale direzione vogliamo portare il nostro atleta, possono essere ulteriormente integrate attraverso una classificazione tassonomica sui tipi di domande da porre (Tofade et al., 2013):

Fig. 3.3. Types of Nonhierarchical Questions Used as Teaching Tools

Riassumendo, possiamo dire che l’obiettivo delle domande performanti risulta essere quello di stimolare l’atleta a prendere consapevolezza e responsabilità delle sue azioni. Un esempio di quanto appena espresso potrebbe essere il seguente (ipotizzando che un calciatore in allenamento cerchi riscontro su un cross effettuato):

  • Atleta: «Caspita Mister, ho tirato troppo lungo… di quanto ho sbagliato?»
    • Allenatore: «Sì era lungo… secondo te di quanti metri?»
    • Atleta: «Direi… 5 metri!»
    • Allenatore: «Cosa ti fa dire 5 metri?»
    • Atleta: «Ho visto che la palla è caduta vicino alla riga di fondo campo!»
    • Allenatore: «Cosa hai notato calciando?»
    • Atleta: «Forse ho colpito la palla troppo sotto, perché l’ho vista impennarsi troppo!»
    • Allenatore: «Capisco… ora il prossimo cross dove lo vuoi direzionare?»
    • Atleta: «Beh… voglio riuscire a mettere la palla nei piedi del mio compagno!»
    • Allenatore: «Nello specifico, come lo farai?»
    • Atleta: «Porto il corpo più avanti!»

In questo breve ed ipotetico scambio dialettico l’allenatore non solo consente, attraverso le domande, al giocatore di migliorare un fondamentale tecnico, ma pone anche il focus sullo sviluppo della consapevolezza esecutiva, sulla sua correzione e responsabilità tecnica (Rossi & Sabbatini, 2021).

3.2 Tecniche di visualizzazione sportiva (motor imagery)

Concludiamo questo capitolo parlando di un tema diventato attuale negli ultimi tempi come metodo di allenamento integrato e di miglioramento delle abilità: il metodo di visualizzazione. L’utilizzo di tecniche di visualizzazione si basa sul principio secondo il quale: “immaginare di fare una determinata azione, produce effetti sul nostro organismo corrispondenti al fare realmente quella azione” (Rossi & Sabbatini, 2021). Il così detto metodo motor imagery, risulta efficace nella prestazione sportiva e anche come mezzo attraverso il quale si facilita il processo di apprendimento tecnico, tattico, fisico ed emotivo (Rossi & Sabbatini, 2021). Oltre a questo, la visualizzazione può aiutare nella gestione del dolore e nell’aumentare la motivazione; cosa importante è che siano coinvolti tutti i 5 sensi (Predoiu et al., 2020).

Essa non è vista solo come un’immagine mentale, ma come una esperienza multisensoriale che può aiutare a gestire emozioni negative e stress migliorando la prestazione mentale degli atleti (Stephen et al., 2022). Diventa particolarmente importante durante i periodi di inattività forzata in quanto si è studiato come la visualizzazione mentale possa mantenere e migliorare la capacità fisica degli atleti (Iacono et al., 2021), e in periodi di digiuno forzato (Ramadan), dove si è visto che l’immaginazione motoria può attenuare gli effetti negativi del digiuno su agilità, velocità e reazione (Fekih et al., 2020).

Per praticare un’efficace visualizzazione l’atleta deve avere le seguenti tre caratteristiche (Rossi & Sabbatini, 2021):

✔️ Avere capacità di provare sensazioni e percezioni tipiche dell’azione reale;
✔️ Essere consapevole dei risultati che produce, evocandoli attraverso l’azione mentale volontaria;
✔️ Non effettuare movimenti durante l’attività.

Inoltre, prima di praticarla è giusto fare chiarezza sui tipi di visualizzazione ai quali possiamo ricorrere:

✔️ VISUALIZZAZIONE ESTERNA DELL’AZIONE: l’azione viene osservata attraverso immagini dal vivo o a video, basandoci su un modello prestazionale ottimale;

✔️ VISUALIZZAZIONE INTERNA: l’azione viene immaginata e percepita dall’atleta stesso.

L’utilizzo di una o l’altra dipende fondamentalmente dalle abilità e dall’esperienza pregressa dell’atleta. È emerso da uno studio di (Yu et al., 2015) che gli atleti di sport aperti e di alto livello traggono più vantaggio dalla visualizzazione esterna, mentre quella interna, che è comunque utile a tutti, ha avuto forti connotazioni ancora per gli atleti di alto livello. Mentre per abilità chiuse può essere più idoneo focalizzarsi sulla visualizzazione interna, anche se la scelta migliorare rimane quella di combinarle entrambe per ottimizzare l’apprendimento (Dana & Gozalzadeh, 2017). Uno studio recente suggerisce che la visualizzazione interna è utile agli atleti esperti per rafforzare gesti già appresi, mentre quella esterna sembra essere più vantaggiosa per i principianti che stanno cercando di acquisire nuove abilità motorie (Montuori et al., 2018).

Le tecniche di visualizzazione hanno lo scopo di facilitare l’acquisizione neuro-motoria dell’azione e rafforzare l’automatismo efficace ricercato. Per trarne il massimo, attraverso queste tecniche, l’allenamento dovrà tener conto della SPECIFICITÁ della situazione e dell’UNICITÁ dell’atleta (Rossi & Sabbatini, 2021).

3.2.1 Modelli di visualizzazione mentale

Come detto in precedenza, la visualizzazione risulta tanto più efficace quanto maggiormente è mirata alla reale esecuzione del gesto o azione sulla quale si vuol lavorare. Nelle righe che seguono cercheremo di descrivere un paio di modelli di visualizzazione mentale utili nel programma di allenamento. Il primo modello menzionato è l’AIM (Applied Imagery for Motivation), il quale integra fattori motivazionali e cognitivi per migliorare le prestazioni sportive (Rhodes & May, 2022). Tale modello (auto-amministrato) si presenta come segue:

Figura 3.4 AIM model

Il modello prevede un’intervista iniziale (un’ora circa, attraverso la somministrazione di scale di immaginazione) dalla quale si esplicano tre fasi generale di immaginazione:

✔️ Macro immaginazione: si focalizza l’individuo su obiettivi a lungo termine e sul significato che questi hanno per lui (visualizzazione mentale attraverso l’utilizzo dei cinque sensi);

✔️ Meso immaginazione: fase così detta “motivazionale”, attraverso il contrasto mentale tra il sé attuale e quello futuro inclusi i risultati se l’obiettivo viene raggiunto o meno. Tutto ciò mira a rinforzare l’impegno al cambiamento anche attraverso l’elencazione di difficoltà esistenti o aree che necessitano di sviluppo;

✔️ Micro immaginazione: fase finale nella quale ci si concentra sul sé attuale e si imposta un obiettivo immediato auto-amministrato. L’atleta guida l’esperienza verbalizzando il compito immaginato utilizzando tutti i sensi.

Questa combinazione visiva – cinestesica, supportata da uno studio di (Filgueiras et al., 2017), avendo in condivisione le stesse reti neuronali, se combinate insieme possono svolgere la loro funzionalità in maniera più efficace. La fase successiva è quella di implementare i cambiamenti attraverso compiti specifici. In questo caso gli atleti decidono il loro segnale motivazionale (sono compiti quotidiani come, per esempio, riempire una bottiglia d’acqua) che agirà come attivatore per attivare l’immaginazione (LAP). Dopo (L) aver deciso il segnale, l’atleta deve attivare l’immaginazione mentale (A) seguendo il ciclo AIM, infine l’atleta esegue (P) impegnandosi in un’azione specifica che viene implementata subito (Rhodes & May, 2022). Il fatto che subito dopo il processo di visualizzazione sia svolta la parte pratica deriva da studi scientifici che dimostrano che l’imagery è più efficace quando è combinata con la parte fisica (Simonsmeier et al., 2020).

Il secondo modello di visualizzazione proposto da (Holmes & Collins, 2001) prende in esame 7 punti e i rispettivi requisiti minimi che dovrebbero avere confrontati con il compito fisico, al fine di migliorare l’efficacia della loro pratica. Tale modello prende il nome di PETTLEP; acronimo che rappresenta le 7 linee guida per la visualizzazione (Rossi & Sabbatini, 2021):

Fig. 3.5 Modello tecnico di visualizzazione PETTLEP

Il suddetto modello è stato oggetto negli ultimi vent’anni di numerose ricerche. Se in principio era stato progettato per migliorare la qualità e l’impatto dell’imagery nelle prestazioni sportive, tale modello ha trovato applicazione anche nella medicina e nella musica. L’efficacia rilevata in tutti questi campi è fortemente influenzata dalla rilevanza personale. Inoltre, gli individui che credono fortemente nelle proprie capacità ne beneficiano maggiormente (Collins & Carson, 2017). L’efficacia di tale modello nel miglioramento delle performance è sostenuta da numerosi studi scientifici (Wakefield & Smith, 2012, Wakefield & Smith, 2011, Wright & Smith, 2007, Morone et al., 2022).

Anche il modello PETTLEP, come quello descritto in precedenza, l’uso combinato di visualizzazione e elementi cinestetici, consente una maggiore facilità e vividezza del movimento durante l’immaginazione (Gregg, 2023, Anuar et al., 2016, Wakefield et al., 2016).

I sette elementi proposti nel modello sono così descritti (Rossi & Sabbatini, 2021):

✔️ Physical (fisico): la visualizzazione deve contenere l’esperienza fisico-corporea, con annesse tutte le sensazioni propriocettive e cinestetiche del movimento. Per una maggiore efficacia sarebbe utile ad esempio: usare lo stesso materiale tecnico della gara, abbigliamento compreso;

✔️ Environment (ambiente): diventa importante il contesto, che deve essere il più fedele possibile all’ambiente in cui verrà effettuata la prestazione. Potrebbe essere utile far svolgere la visualizzazione nel campo di gara, oppure riprodurlo virtualmente con immagini e video;

✔️ Task (compito): le immagini visualizzate devono corrispondere al livello di abilità dell’atleta e alle sue preferenze individuali. Il coach deve guidare, attraverso domande mirate, a focalizzarsi più internamente o esternamente in base all’esperienza dell’atleta e al livello attuale di performance; 

✔️ Timing (sincronizzazione): la velocità e il ritmo della visualizzazione deve corrispondere al tempo reale di esecuzione. Le immagini al rallentatore possono essere utili per correggere parti di gesti tecnici e atletici;

✔️ Learning (apprendimento): la visualizzazione deve andare di pari passo con lo sviluppo delle abilità dell’atleta. Necessita quindi di un continuo aggiornamento rispetto ai cambiamenti delle life skills dell’atleta;

✔️ Emotion (emozione): devono essere possibilmente riprodotte le stesse emozioni che l’atleta vive nella competizione. Non possiamo far svolgere all’atleta, una tecnica di rilassamento prima di una visualizzazione prepartita (stato emotivo falsato). Le visualizzazioni personalizzate e cariche di emozioni hanno evidenziato una maggiore attività muscolare;

✔️ Perspective (prospettiva): partendo dal presupposto che esiste una prospettiva ASSOCIATA (l’atleta vive in prima persona tutte le esperienze sensoriali della visualizzazione) e una DISSOCIATA (l’atleta osserva sé stesso come se fosse proiettato su uno schermo), nel modello PETTLEP è consigliato l’uso di una prospettiva associata.

Come in tutti i processi di allenamento, anche la visualizzazione richiede pratica costante per migliorare e sviluppare questa abilità e i reali benefici (Wakefield & Smith, 2011, Rossi & Sabbatini, 2021).

Capitolo 4. Le emozioni nella prestazione sportiva

4.1 Origine e incidenza delle emozioni

Negli ultimi anni, in ambito sportivo, il tema relativo alle emozioni è diventato sempre più centrale. Le emozioni tendono ad essere considerate delle strutture fisse che si possono organizzare metodicamente, ma non è così. In tutti gli ambiti della nostra vita sappiamo con certezza che le emozioni tendono ad alternarsi nello spazio di pochi secondi e, perciò, diventa impossibile controllarne il fluire ma soprattutto pretendere di poterle governare a nostro piacimento (Rossi & Sabbatini, 2021).

I sociobiologi sostengono che alle emozioni è stato conferito un ruolo importante durante l’evoluzione affinché esse ci potessero aiutare ad affrontare situazioni e compiti troppo difficili che il solo intelletto non poteva sostenere. Fondamentalmente, ogni emozione ci predispone ad un’azione in maniera ben precisa; essa ci orienta nella direzione più giusta per noi per superare gli ostacoli della vita (Goleman, 2015).

Sono viste come stati specializzati che aumentano la fitness in situazioni specifiche e sono pressoché essenziali per la riproduzione e la sopravvivenza (Nesse, 1990, Denton et al., 2009). Inoltre, hanno la caratteristica di essere viste come adattamenti distinti; le emozioni hanno cioè funzioni distinte (es: paura e rabbia sono diverse tra loro) che possono essere più o meno rilevanti per gli esseri umani difronte alle minacce e alle opportunità che l’ambiente presenta (Tracy, 2014). Per farlo attivano risposte fisiologiche, cognitive, motivazionali, comportamentali e soggettive (Nesse & Ellsworth, 2009). Tali risposte derivano dal sistema nervoso autonomo, mentre l’intenzione ad agire deriva da processi motivazionali, dalla valutazione cognitiva e dal vissuto soggettivo (Mandolesi, 2017).

Per spiegare tutto ciò (Goleman, 2015) afferma che l’essere umano possiede due menti: quella razionale (ci rende consapevoli e riflessivi) e quella emozionale (impulsiva e potente). Esse sono facoltà semi-indipendenti, cioè riflettono il funzionamento di circuiti cerebrali distinti anche se sono interconnessi tra di loro. Il cervello emozionale presenta un particolare sistema che circonda il tronco cerebrale, il «sistema limbico», che a sua volta è sede di un gruppo di strutture interconnesse a forma di mandorla, l’amigdala. Essa è specializzata nelle questioni emozionali e funge da “magazzino” della memoria delle emozioni (LeDoux, 2000, LeDoux, 2012). Inoltre, è stato studiato come la via che i segnali emozionali prendono bypassi la neocorteccia.

Questo aspetto ci può spiegare la capacità che hanno le emozioni di soffocare la parte razionale del cervello (Goleman, 2015). A sostegno di tale tesi anche uno studio scientifico di (LaBar, Cabesa, 2006) ci descrive come la dissociazione tra amigdala e ippocampo (sede dell’apprendimento e della memoria) sia ben visibile nei pazienti con lesioni cerebrali. Nonostante ciò entrambi i sistemi lavorano in maniera interconnessa nella codifica, consolidamento e recupero dei ricordi (Faul & LaBar, 2020). Un esempio divertente ce lo descrive (Goleman, 2015): «l’ippocampo è fondamentale per riconoscere in un volto quello di tua cugina. Ma è l’amigdala ad aggiungere che ti è proprio antipatica».

Nel processo mnemonico gioca un ruolo importante l’AROUSAL (eccitazione): più e forte l’intensità di un’emozione è più questa sarà legata ad un ricordo in maniera indelebile. Ricerche scientifiche, in tal senso, ci dicono che le parole emotivamente cariche sono ricordate meglio rispetto a quelle neutre (LaBar & Cabesa, 2006, Faul & LaBar, 2020). L’intensità, inoltre, è strettamente legata alla risposta fisiologica dell’organismo e alla valenza (lo stato positivo e negativo dell’emozione). Quindi, secondo questa visione, le emozioni possono essere spiegate come la combinazione di queste due varianti (Mandolesi, 2017):

Fig. 4.1 Schematizzazione delle emozioni attraverso valenza e arousal

Anche in ambito sportivo le emozioni hanno un ruolo impattante nel processo di apprendimento e prestazione. La pressione emotiva prende il sopravvento nell’esecuzione dell’azione, portando lo stato d’animo dell’individuo ad essere sopraffatto dal timore di sbagliare o magari dall’ansia nata nel tentativo di ricercare la perfezione (Rossi & Sabbatini, 2021). Il modello di Scherer identifica sei componenti interattive delle emozioni (Jekauc et al., 2021):

Fig. 4.2 Six components in the cycle of emotion.

Tale modello descrive:

  • PROCESSI SCATENANTI: gli eventi, interni ed esterni, che innescano una risposta emotiva;
  • REZIONI FISIOLOGICHE: risposte automatiche dell’organismo (es: aumento F.C.) che preparano il soggetto ad agire;
  • TENDENZA ALL’AZIONE: compiere azioni specifiche in base alla risposta emotiva;
  • COMPORTAMENTI ESPRESSIVI: linguaggio non verbale (espressioni facciali e gesti) influenzati dall’emozione;
  • ESPERIENZA SOGGETTIVA: consapevolezza delle proprie emozioni; si passa da uno stato inconscio ad uno sempre più cosciente;
  • PROCESSI COGNITIVI SUPERIORI: nell’ultimo stadio il soggetto diventa consapevole delle emozioni e della situazione, rispondono alla domanda: “perché mi sento così?”.

Questi sei processi, tendenzialmente, influenzano la prestazione così come segue (Jekauc et al., 2021):

Fig. 4.3 Mechanisms of influence of affective states on performance in sport

Le emozioni, come abbiamo visto, influenzano le prestazioni in vari modi, con quelle positive che possono facilitare e quelle negative che possono essere sia utili che dannose (Hanin, 2007). In uno studio di (Robazza, 2006) viene approfondito questo concetto precisando come, ad esempio, un elevato livello di ansia può essere utile per compiti che comportano sforzo fisico, ma dannoso per compiti che richiedono precisione. Per questo si è sviluppato un modello chiamato IZOF (zone di funzionamento ottimale) (Hanin, 2000).

Il principio centrale del modello è che ogni atleta ha una zona ottimale di intensità emotiva per prestazioni efficaci (Hanin, 2000, Hanin 2007, Robazza, 2006). Uno dei compiti del coach dovrebbe essere quello di aiutare l’atleta a identificare il contenuto e l’intensità delle emozioni ottimali e disfunzionali che si verificano prima, durante e dopo prestazioni di successo e insuccesso (Robazza, 2006). Sempre secondo (Robazza, 2006) un metodo affidabile è quello auto-regolativo di richiamo; all’atleta viene chiesto di ricordare le emozioni piacevoli e non, legate al successo o al fallimento, tramite l’utilizzo di una lista di parole emotive (stimolo).

Vengono utilizzati descrittori di emozioni funzionali piacevoli (energico, carico, motivato, sicuro e fiducioso) e spiacevoli (teso, carico, insoddisfatto, attaccante e veemente), descrittori di emozioni disfunzionali piacevoli (accomodante, eccitato, composto, rilassato e felicissimo) e spiacevoli (stanco, riluttante, incerto, pigro e depresso). Successivamente l’atleta dovrà stabilire i valori della zona (superiori e inferiori) per ogni emozione attraverso la Scala di Borg CR-10.

Per aiutare l’atleta nel ricordo introspettivo si possono utilizzare domande descrittive tipo (Robazza, 2006): “Come ti sei sentito quando il tuo avversario ha segnato?”, “Cosa hai fatto quando ti sei sentito in questo modo?”, “Qual è la differenza tra ciò che provi quando sei ben preparato e scarsamente preparato per la partita?”. Un altro strumento di approfondimento introspettivo è quello dell’utilizzo di metafore. Gli atleti dovevano completare la frase: “Prima della mia migliore gara mi sentivo come…”, che generava una metafora (Es: “mi sentivo come una tigre”, “mi sentivo forte e concentrato”) (Hanin, 2007).

Fondamentalmente si parla di un livello ottimale di attivazione che favorisce il rendimento massimo della prestazione: il così detto STATO DI FLOW (Mandolesi, 2017). In definitiva, possiamo affermare che fin dal primo giorno che siamo nati già si possedevano gli indicatori evolutivi-emotivi come il pianto, il sorriso, la capacità di imitazione. Il nostro compito come genitori e allenatori è quello di integrare le abilità cognitive ed emotive. Per facilitare l’integrazione di queste due sfere è importante che nel processo di apprendimento venga sollecitato sia lo sviluppo dell’intelletto sia la verbalizzazione degli stati interiori. Domande come: “Come stai? Come ti senti? Cosa stai provando? Cosa stai facendo?” stanno offrendo opportunità di palesare le emozioni, per far sì che si sviluppi la competenza emotiva (Carzedda et al., 2020).

4.2 Allenare l’emozione

Se abbiamo detto in precedenza che le risposte emotive sono generate da automatismi e inneschi non controllabili, come possiamo allenarle?

In questo caso, partiamo da una duplice risposta (Rossi & Sabbatini, 2021):

  1. L’allenamento delle emozioni va considerato sin dall’età giovanile. Ogni allenatore/dirigente deve essere sensibilizzato su questo tema in quanto ci deve essere un autentico senso di amore e di aiuto nei confronti dell’atleta, in quanto esse lasceranno un segno indelebile su quell’atleta;
  2. Inserire l’allenamento delle emozioni in tutte le fasi del percorso sportivo dell’atleta, sviluppando così la capacità di trasformarle. Lo scopo è che l’atleta prenda consapevolezza delle proprie e altrui emozioni, distinguendole e nominandole, favorendo così la presa di coscienza e l’accettazione di esse.

Le emozioni positive e negative spesso co-esistono in modo simultaneo nella vita quotidiana. Ovviamente le emozioni positive aiutano a tamponare lo stress ma anche a sintonizzare il processo attentivo sulla percezione di segnali più positivi. Gli interventi che promuovono efficacemente le emozioni positive sono di notevole valore per sostenere salute e benessere. Uno strumento efficace di consapevolezza emotiva è rappresentato dalla MINDFULLNESS: una pratica di meditazione che focalizza l’attenzione sulle sensazioni corporee aumentando le emozioni positive e riducendo quelle negative (Lindsay et al., 2018).

Questa pratica è anche molto utile nel miglioramento delle abilità di gestione delle emozioni altrui e una diminuzione delle competenze sociali negative (depressione) (Smith et al., 2023). Che le pratiche contemplative abbiano un effetto benefico a livello psicofisico lo alimenta anche un altro studio scientifico di (Kemeny et al., 2012) nel quale è stato riscontrato un maggiore recupero fisiologico dopo situazioni di stress, associato ad una riduzione della pressione sanguigna in risposta a compiti stressanti per i soggetti che hanno meditato di più.

Anche le parole risultano essere importanti nella gestione degli stati emotivi. Lo si evince da uno studio di (Long et al., 2020) nel quale venne riscontrato che, alle persone alle quali venne detto che un particolare training cognitivo potesse migliorare la regolazione emotiva, ci fu un miglioramento degli effetti regolatori rispetto al gruppo che non aveva ricevuto tali istruzioni. le aspettative indotte da parole influenzano in modo significativo il comportamento e le emozioni (Long et al., 2020). Una possibile alfabetizzazione emozionale basata sul riconoscimento visivo dell’emozione, è quella descritta da (Rossi & Sabbatini, 2021) utilizzando la così detta “Ruota delle Emozioni” dello psicologo Robert Plutchik:

Fig. 4.4 “Ruota delle Emozioni” di Robert Plutchik

L’esercizio segue le suddette fasi:

  • Si parte con l’identificazione e denominazione, da parte dell’atleta, delle differenti emozioni di personaggi sportivi raffigurati in foto o a video;
  • In coppia, un atleta interpreta con la mimica del corpo l’espressione di un’emozione. Al compagno il compito di verbalizzare l’emozione rilevata;
  • Introdurre in allenamento esercitazioni o situazioni che stimolino determinate emozioni, con gradi di difficoltà crescenti, chiedendo all’atleta di riconoscere e verbalizzare le emozioni provate;
  • Il coach propone all’atleta esercizi altamente sfidanti e dal forte impatto emotivo; ne segue un dialogo con l’atleta su quale sia lo stato emozionale più congruo ed efficace per far fronte a quella particolare situazione.

Tutto questo integrato con la suddetta ruota, come base iniziale per l’allenamento emozionale, per aiutare l’atleta a identificare e declinare nella maniera più precisa possibile l’emozione percepita nelle varie situazioni. All’alfabetizzazione emozionale visiva si può associare anche quella corporea. Da uno studio sulla topografia delle emozioni di (Nummenmaa et al., 2013) ne consegue che, difronte alla visualizzazione o attivazione di stimoli emotivi, i partecipanti hanno colorato le regioni corporee come segue:

Fig. 4.5. “Bodily Maps of Emotion” (Nummenmaa et al.,2013)

Dai dati emersi da tale studio si possono prendere spunti interessanti per sviluppare momenti ed esercizi di allenamento emozionale su base percettiva corporea (Rossi & Sabbatini, 2021).

Un altro approccio “corporeo” presentato da (Carzedda et al., 2020) e denominato “Scan Sensitivo-Corporeo-Forma Base” (SSC-FB) è uno processo di capacità di ascolto consapevole del sé psicocorporeo costituito da dieci esperienze da sviluppare sia a livello individuale che di gruppo:

E1 – Esperienze dell’appoggio sui piedi e del radicamento (Grounding): si lavora sulla sensazione di appoggio dei piedi sul pavimento stando fermi sul posto;

E2 – Esperienza del muoversi e del sentirsi incontrando gli altri: ci si concentra sul sentire la pianta del piede e l’equilibrio mentre si cammina lentamente;

E3 – Esperienza del muoversi per la stanza, incontrare gli altri, guardarsi e pronunciare la parola “Io”: evoluzione dell’esercizio E2;

E4 – Esperienza a coppie, spingere spalla contro spalla dicendo la parola “Io”: si poggia la spalla destra contro la destra del compagno e iniziando a spingere si ripete la parola “Io”, alzando poi il tono di voce;

E5 – Esperienza in coppie, spingere spalla contro spalla dicendo la parola “Via”: evoluzione dell’esercizio E4;

E6 – Esperienza in coppie, spingere schiena contro schiena dicendo la parola “Via”: in questo caso i due soggetti sono girati di schiena ed iniziano a spingere uno contro l’altro;

E7 – Esperienza in coppie, del contendersi un oggetto (es: un pallone): prendere l’oggetto tra le mani ed entrambi cercano di tirarlo a sé ripetendo “è mio”;

E8 – Esperienza in due coppie, del contendersi un oggetto: evoluzione dell’esercizio E7;

E9 – Esperienza in coppie, lasciarsi cadere all’indietro ed esser presi dall’altro: lavoro che si svolge in piedi in maniera alternata;

E10 – Esperienza del respirare e dell’ascolto della propria voce: distesi su un tappeto in posizione supina, con pianta del piede che tocca il pavimento, inizia la fase di respiro prestando attenzione a come viene eseguita; successivamente pronunciare una parola per percepire la risonanza che questa produce.

L’allenamento alla consapevolezza emozionale deve essere rivolto sia alle emozioni negative ma soprattutto a quelle positive, affinché l’atleta accresca la sua maturità e autonomia, potendo potenziare tali emozioni positive (Rossi & Sabbatini, 2021).

4.3 La felicità dell’atleta

Concludo questo lavoro di ricerca con un tema particolare ma fondamentale per tutti i processi di apprendimento e miglioramento prestazionale: “la felicità”. La Treccani definisce la felicità come: «stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato». La felicità, ad oggi, non è più solo un concetto morale o etico, ma è diventata l’oggetto di numerose ricerche perché considerata fondamentale per la salute dell’individuo (Rossi & Sabbatini, 2021). La felicità può includere benessere affettivo, benessere eudemonico e benessere valutativo.

La loro massima espressione è collegata ad una riduzione dell’incidenza di diverse malattie come la coronaropatia (Steptoe, 2019). Tutto questo è reso possibile dal fatto che la felicità influisce in maniera positiva sullo stress, aumentando la longevità (Veenhoven, 1988). Tale longevità è favorita dalla resilienza, che a sua volta aumenta quando coltiviamo un insieme di emozioni positive che costituiscono la felicità (Cohn et al., 2009). Se a tutto ciò colleghiamo il fatto che la felicità è un fattore che genera successo aumentando i valori di autostima, ottimismo e capacità di coping (Lyubomirsky et al., 2005), si capisce quanto questo concetto di felicità non sia proprio così marginale.

È su queste basi scientifiche che introduciamo il concetto di felicità in ambito sportivo. Esistono due tipi di felicità (Rossi & Sabbatini, 2021):

  • Felicità edonica: deriva dal provare piacere e soddisfazione per il raggiungimento di un obiettivo o di un momento piacevole o di un successo ottenuto. Con il passare del tempo tale felicità tende a svanire;
  • Felicità eudemonica: è quella più interiore, è frutto della motivazione e l’impegno personale a far fronte alle situazioni che richiedono grandi sforzi. La felicità sta nel senso di appagamento percepito durante il processo.

Entrambe le felicità sono collegate ma distinte; infatti la felicità eudemonica è associata ad una maggiore realizzazione personale e di successo (Waterman, 1993, Ryan et al., 2001). Inoltre, ha un impatto più benefico sul benessere psicologico (Ryan et al., 2001). In ambito lavorativo le esperienze eudemoniche hanno un impatto più forte rispetto a quelle edoniche, soprattutto quando l’attività dei soggetti è percepita come significativa: l’orientamento verso una vita di significato (Peiró et al., 2019).

Nel loro libro (Rossi & Sabbatini, 2021) ci dicono che la felicità dipende da tre variabili: il 50% è genetica dell’individuo, il 40% è determinato dall’azione e dalla volontà e il restante 10% dipende da condizioni ambientali. Quindi un 50% (40% + 10%) delle possibilità di essere felice dipende dal soggetto. Ovviamente gli allenatori rivestono un ruolo fondamentale nel favorire la felicità dell’atleta. Per prima cosa partendo da due teorie:

✔️ La teoria di M. Fordyce (1977): studi mirati a sviluppare un programma di autoapprendimento per aumentare la felicità e la soddisfazione. Esso si basa su quattordici punti chiave che le persone dovrebbero svolgere come allenamento alla felicità;

✔️ La teoria di M. Seligman (Rossi & Sabbatini, 2021): la felicità è definita sotto l’acronimo PERMA ed include sia l’aspetto edonico che eudemonico. Le cinque componenti della felicità sono:

  • Positive Emotions: emozioni positive edoniche;
  • Engagement: esprime se stessi attraverso esperienze ottimali;
  • Positive Relationship: coltivare relazioni di valore;
  • Meaning: il significato delle esperienze deve essere in linea con i valori dell’individuo;
  • Accomplishment: realizzazione personale attraverso il fare e l’essere.

Considerando il fatto che lo sport ha un impatto positivo sulla felicità quattro volte tanto rispetto al contrario (Frey & Gullo, 2021, Huang & Humphreys, 2010) e che il flusso (inteso come impegno) ha il potere predittivo più alto sulla soddisfazione (Lee et al.,2014), non ci resta che portare un decalogo sul quale l’allenatore e l’atleta possano lavorarci per favorire la felicità (Rossi & Sabbatini, 2021):

  • Mantenere l’attivazione: evitare periodi di inattività; riempire le giornate di contatti, impegni e attività;
  • Organizzare le attività: evita la procrastinazione e focalizza l’attenzione e aumenta l’impegno richiesto;
  • Dare senso all’impegno: è il valore che l’individuo attribuisce a ciò che fa e alla sua vita;
  • Promuovere socialità: sia all’interno che all’esterno del contesto sportivo, le interazioni sociali contribuiscono alla creazione di sentimenti di soddisfazione;
  • Coltivare aspettative realizzabili: se allineate con le potenzialità dell’individuo, sono fonte di soddisfazione;
  • Nutrire pensieri ottimistici: l’ottimismo porta a pensare a emozioni positive e alimenta il senso di autoefficacia;
  • Favorire la serenità: le preoccupazioni generano ansie; la felicità è legata al tempo trascorso alla cura di sé;
  • Supportare l’espressione personale: apprezzare ed aiutare la persona che si ha difronte;
  • Responsabilizzare alla felicità: riappropriarsi della facoltà di decidere frequentare ambienti e persone che emanano felicità;
  • Educare alla felicità: è un vero e proprio bisogno dell’individuo, il coach può essere un alleato educando l’atleta a prendersi cura di sé e della propria felicità, impegnandosi in attività stimolanti che favoriscano la piena soddisfazione.

Chiudo questo capitolo con una citazione di Jennifer Capriati (ex tennista statunitense) che penso descriva a pieno tutto quello che è stato detto in precedenza: Non è tanto che sia felice perché ho vinto. Ho vinto perché ho ripreso ad essere felice”.

Conclusioni

Siamo giunti al termine di questa avventura, che mai avrei pensato nella mia vita di poterla intraprendere e di riuscire a portarla a compimento, ovviamente non senza difficoltà. In questo elaborato abbiamo cercato di ripercorrere, in maniera generale, un po’ tutte le tappe che sono implicate in un più ampio e vasto campo che parla di apprendimento, coaching ed emozioni.

Partendo dalle teorie dell’apprendimento e in particolare di quello motorio, abbiamo cercato di fare una panoramica su quelle che sono state le evoluzioni e gli sviluppi di tali teorie. In primis, abbiamo studiato come gli individui costruiscano la loro conoscenza attraverso un cambiamento osservabile che deriva dal binomio stimolo-risposta e dal rinforzo di un determinato comportamento, per passare poi attraverso teorie cognitive, nelle quali l’apprendimento è visto come un processo interno che coinvolge il pensiero, la comprensione, l’organizzazione delle informazioni al fine di costruire schemi cognitivi.

Successivamente ci siamo imbattuti in teorie che enfatizzano l’interazione con l’ambiente, in cui l’apprendimento avviene tramite influenza stessa dell’ambiente esterno sull’individuo, attraverso osservazione ed imitazione degli altri, attraverso errori e risoluzione di problemi.

Per finire, ci siamo soffermati sulle attuali teorie dell’apprendimento che ci confermano come mente-corpo-ambiente interagiscono tra di loro in maniera inseparabile, influenzati da un fenomeno che accompagna l’essere umano fin dalla nascita, ovvero le emozioni.

Abbiamo poi cercato di porre l’attenzione su una “particolare” metodologia che influenza l’apprendimento: il coaching. Fondamentalmente fare coaching significa “guidare” le persone alla ricerca del proprio potenziale interiore (fatto di focus e stati d’animo), in modo tale che possano sentirsi realizzate nell’affrontare le sfide che la vita mette loro davanti tutti i giorni, in un percorso di esplorazione guidata che avviene tramite la formulazione di domande e tecniche di visualizzazione.

Infine, ci siamo focalizzati su come le emozioni siano “potenti” strumenti nelle mani di ogni individuo che possono salvare, distruggere ed elevare. La comprensione delle emozioni e la loro gestione passa da una pratica costante di autoregolazione interna, senza la quale risulta complesso poterle gestire e incanalarle verso obiettivi specifici. Essere in grado di riconoscere le nostre ed altrui emozioni ci permette di poter sviluppare un particolare tipo di intelligenza, che non ha nulla a che vedere con il Q.I di ogni individuo ma che sembra faccia davvero la differenza sia nelle relazioni che nel lavoro: l’intelligenza emotiva. Sviluppare e incrementare tale intelligenza, significa migliorare il problem solving, il decision making e la memoria di ogni individuo. 

Un capitolo a parte spetta all’allenamento alla felicità. È stato dimostrato come un ambiente che sviluppi questa particolare emozione influenzi in maniera positiva i processi di apprendimento, di memoria e di interazione sociale. In un mondo sempre più egoista ed indifferente, nel quale gli individui sembrano aver perso qualsiasi forma di empatia, educare e responsabilizzare alla felicità, penso sia un dovere per tutte quelle persone che fanno dell’insegnamento il loro lavoro. Se coltiviamo felicità coltiviamo anche gioia, e se come dice la Lucangeli: «se un bambino impara con gioia, la lezione si inciderà nella mente insieme alla gioia. Nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare!”», abbiamo il dovere morale di seminare felicità in ogni contesto educativo e formativo.

Coaching ed Emozioni sono due facce della stessa medaglia, che hanno il compito di accompagnare gli educatori, gli allenatori e i genitori a crescere persone migliori. Abbiamo studiato quanto potente possa essere la loro influenza nei processi di apprendimento e sul benessere generale.

Non mancano le limitazioni alle teorie del Coaching, perché ancora visto come una “pseudoscienza” che si basa su approcci di psicologia popolare. La ricerca scientifica si dovrebbe concentrare di più su studi teorici rigorosi, tralasciando quelli pratici, perché manca una ricerca empirica oggettiva sull’efficacia e l’analisi di risultati a lungo termine. L’efficacia del Coaching deriva da auto-valutazioni degli individui (Blackman et al., 2016). Inoltre, essendo il Coaching utilizzato come strumento di salute mentale per gli atleti, gli allenatori non sono sicuri di come comportarsi e temono di fare “danni”; per questo c’è la necessità di creare programmi educativi specifici per i coach, affinché possano gestire la salute mentale degli atleti come si evince da uno studio di Bisset et al. (2020).

Per quante riguarda le emozioni, invece, l’argomento è molto vasto e, a mio avviso, vi è ancora molto da studiare e conoscere. Sul fatto che influenzino il processo di apprendimento e memoria è un fatto assodato ma, nonostante ciò, il dibattito si fa acceso quando si parla di emozioni di base (paura, rabbia, gioia, tristezza, sorpresa e disgusto), in quanto la teoria costruzionista (Celeghin et al., 2017) e la teoria della causalità delle emozioni (Moors, 2009) hanno entrambe delle limitazioni. Quello che manca è un modello integrativo delle emozioni che le possa spiegare tutte.

Per far fronte a questo (Lange et al., 2019) hanno ipotizzano la creazione di un modello psicometrico che concettualizzi le emozioni. Un’altra limitazione importante è quella data dalle “credenze” personali che ogni atleta ripone sia nelle emozioni positive che negative. Aiutare gli atleti ad identificare le cause delle loro emozioni è un inizio (Lane et al., 2012). Interessante infine il valutare e studiare come le emozioni individuali influenzino il team e le prestazioni di squadra (Campo et al., 2019).

Sicuramente le emozioni che mi hanno accompagnato in questo viaggio non erano solo quelle di base; penso di averle toccato con mano tutte quante. Rimarrà per sempre in me il ricordo di essere riuscito a tagliare il traguardo. Concludo questo viaggio con la consapevolezza che questo non sarà un punto di arrivo ma di partenza verso nuove e meravigliose esperienze.

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